Esiste un “principio” del dolore? Risiede nell’inizio, nel dato materiale o nella causa? Il principio – appunto – non è solo l’origine di tutto ma, nel suo triplice significato, racchiude il senso (o, altresì, la sua mancanza) e la profondità del dramma.
Quello di Stefano Cucchi comincia ben prima di quella fatidica notte del 15 ottobre del 2009 quando lo arrestano per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Ha 31 anni e da tanto tempo conduce una lotta impari contro il demone della droga che ha provato a sconfiggere attraverso un percorso di disintossicazione, il sostegno della sua famiglia e una volontà che, comunque, non riesce ad avere la meglio sulla morsa della tentazione.
La custodia cautelare segnerà l’inizio della fine, il giorno 1 che condurrà ad un epilogo di morte dopo l’indicibile strazio di una settimana, proprio quella raccontata da Alessio Cremonini che, pur consapevole della materia scottante che si apprestava a maneggiare, ha avuto il coraggio di rischiare addentrandosi nei meandri, non poco tortuosi, di una vicenda giudiziaria non ancora giunta al termine. Dopo nove anni di processi, più di quaranta udienze, diverse maxi perizie e centinaia di testimoni ascoltati, il caso di Stefano Cucchi resta, ad oggi, una pagina oscura ed esecrabile della storia recente.
Cremonini, con grande rispetto nei confronti dell’umana sofferenza, si accosta alla vicenda attenendosi ai fatti, rifuggendo ogni forma di retorica o di facile, ricattatoria, commozione. Racconta ciò che è accaduto in quegli ultimi, tragici, sette giorni di Cucchi ma, soprattutto dà voce a Stefano per riportalo a una dimensione veramente umana, affrancandolo dall’indeterminatezza di quella immagine, reiterata dai media, del suo volto scavato e tumefatto.
Il regista decide pertanto di non seguire il percorso del film di denuncia ma di costruire l’intera opera intorno e “sul” protagonista, facendoci sentire – ancor più che mostrandolo – il suo profondo, lancinante patimento. Celando dietro una porta chiusa la violenza del pestaggio, Cremonini punta la macchina da presa sul viso smunto e sulle membra fragili di un ragazzo che ha inghiottito umiliazioni e colpi e che ha scelto, almeno all’inizio, di tacere per non inimicarsi ancor di più le guardie “perché sai come comincia ma non sai quando finisce”.
E torna, ancora una volta il principio, quel momento in cui inizia tutto ma non riesci a prevedere, e ancor meno a immaginare, dove e come avverrà la conclusione. Per Stefano è arrivata il 22 ottobre, nel reparto protetto dell’Ospedale Pertini, sul freddo tavolo di un obitorio che ha accolto, dopo una lunga agonia, il suo cadavere martoriato. Una morte consumata in solitudine perché mai più, dal giorno dell’arresto, ai suoi parenti è stata offerta la possibilità di vederlo.
Stritolato in un “sistema” atrocemente kafkiano, Cucchi – nel corpo scarnito di Alessandro Borghi che ha fatto suo, fin nel profondo, questo personaggio – si fa paradigma degli ultimi, di coloro ai quali non è concesso nemmeno un barlume di dignità, destinati ad essere inghiottiti nell’oscurità di quel silenzio criminale di chi non ha visto o non ha voluto vedere, ascoltare, soccorrere…
Cremonini non fa di Stefano un santo, tantomeno un martire ma, con lucidità e senso della misura, percorre le tappe del suo tormento che, giorno dopo giorno, lacera la pelle di un corpo già fragile e provato. Non vi è, né vi può essere, alcuna lettura “cristologica” in questa tribolazione (alla domanda “Sei credente?”, Stefano risponde con un amaro “So’ sperante”) andata ben oltre il “semplice” fatto di cronaca (anche se, disgraziatamente, non l’unico) per diventare lo scellerato esempio di quelle spaventose crepe che si aprono su un apparato di giustizia che dovrebbe garantire, ad ogni soggetto che le si affida, la tutela scevra dal pregiudizio ma anche quella pietas, non nel senso religioso del termine, intesa come espressione etica dei doveri che gli uomini hanno verso gli uomini.
Se, a causa della condotta di alcuni, si commette l’errore di generalizzare colpevolizzando un’intera categoria è altrettanto dannoso non accorgersi del modo in cui certi individui disonorano la divisa che indossano commettendo azioni che, in rapporto ad essa, hanno lo sfrontato ardire di legittimare. Per questo Sulla mia pelle non giudica, né condanna ma racconta, alla luce plumbea dello svolgimento dei fatti, il decesso in carcere numero 148 dell’anno 2009, una cifra impressionante (che solo due mesi dopo salirà a 176) tanto quanto il “trattamento” al quale Cucchi è stato sottoposto.
Un film duro ma necessario in cui la disperazione è un grido sordo, senza catarsi, né poesia. E le parole non bastano o, forse, non ci sono perché, come scriveva Seneca, “il grande dolore è muto”.
© CultFrame 09/2018
TRAMA
Cucchi viene arrestato il 15 ottobre 2009 per detenzione e spaccio di stupefacenti. Muore il 22 ottobre nel reparto protetto dell’ospedale romano Sandro Pertini. Il film ricostruisce la dolorosa odissea dell’ultima settimana di vita di Stefano.
CREDITI
Titolo: Sulla mia pelle. Gli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi / Regia: Alessio Cremonini / Sceneggiatura: Alessio Cremonini / Interpreti: Alessandro Borghi, Jamine Trinca, Max Tortora, Milvia Marigliano / Fotografia: Matteo Cocco / Montaggio: Chiara Vullo / Scenografia: Roberto De Antelis / Musica: Mokadelic / Costumi: Stefano Giovani / Produzione: Cinemaundici, Lucky Red / Paese: Italia, 2018/ Distribuzione: Lucky Red e Netflix/ Durata: 100 minuti.