Unico titolo italiano del Concorso Internazionale Lungometraggi di Locarno 2018 e poi Grand Prix du Jury al Festival di Annecy 2018, il film di Fasulo è il primo interamente dedicato a Domenico Scandella, detto Menocchio, il mugnaio del paesino friulano di Montereale Valcellina che nel XVI secolo fu ripetutamente processato dalla Chiesa cattolica romana con l’accusa di essere un eretico.
Già operatore del suono, Fasulo è regista dal 2008 quando firmò Rumore bianco, un articolato omaggio audiovisivo al fiume Tagliamento, cui sono seguiti nel 2013 quel Tir che vinse il Festival internazionale del film di Roma e nel 2015 il documentario Genitori, dedicato a un gruppo di persone con figli disabili: tutte opere geograficamente situate nel Nordest e in particolare nell’area della provincia di Pordenone dove l’autore è cresciuto e in cui la memoria del mugnaio Scandella è ancora presente, come dimostrano le attività del Circolo culturale Menocchio di Montereale.
In questo caso, Fasolo è anche operatore e direttore della fotografia e si è impegnato a filmare con luci naturali o a lume di candele e torce una messa in scena al contempo realista e simbolica della vicenda. Lo si può notare chiaramente fin dall’incipit in cui Menocchio e i suoi familiari emergono dalle tenebre notturne in cui assistono il parto di una giumenta che all’alba darà alla luce il suo vitello, rinviando a un contrasto tra ombre e chiarori, oscurantisti e liberi pensatori, che innerva tutto il film.
A queste immagini e ai frequenti primi piani dei confronti tra inquisitori e inquisiti, si alternano alcune sequenze di segno onirico e un carnevale bestiale con teste bovine che rimandano tanto al folklore locale quanto a un immaginario medievale di stampo rabelaisiano con pennellate alla Goya: una sensibilità estetica mai disgiunta dal discorso etico che una vicenda di cinquecento anni fa ci propone ancora molto attuale e che, come ha dichiarato il regista stesso, non voleva dar luogo a un ‘film storico’; anzi, i volti e le parlate in dialetto friulano appartengono quasi totalmente a non attori che sono uomini e donne di oggi – compreso il notevolissimo protagonista Marcello Martini, in passato poco più di una comparsa nel cast di Vajont (2001) – e che sono stati anche sollecitati a contribuire ai dialoghi stessi.
Tale scelta, che forse respingerà qualche spettatore, è documentaria più che filologica ed è comunque coerente al conflitto culturale e linguistico che il film racconta, al grande spavento che turba gli inquisitori costretti da una delazione a occuparsi di questa piccola comunità di provincia della Repubblica di San Marco. Difatti, se il mugnaio è davvero un ‘autodidatta’ semianalfabeta e se la sua eresia si deve al solo potere dell’immaginazione (diabolico) e dell’autonomia di pensiero che la lettura di pochi libri può ingenerare anche in una mente poco acculturata, meglio allora per la Chiesa continuare a comandare in latino (lingua che dominava i destini dei poveri che non la comprendevano neppure) e a punire con ferocia ogni esercizio del dubbio espresso nella lingua degli umili; meglio allora, costringere i possibili colpevoli a costruire una nuova chiesa nel paese, a divenire gli interpreti di una sacra rappresentazione del potere clericale.
È proprio sull’inchiesta degli inquisitori si costruisce la tensione della prima parte del film, scandita dalle loro domande: chi c’è dietro, se c’è qualcuno, dietro Menocchio? È forse entrato in contatto con qualche luterano magari proveniente da oltreconfine? E che seguito hanno le sue idee nei compaesani? Nella seconda, sembrano prevalere le condizioni materiali, la necessità del protagonista di abiurare come scelta coatta ma anche strategica, un modo per resistere.
Peraltro, i contorni esatti della vicenda rimangono in buona parte fuori dell’opera di Fasolo. La figura di Menocchio è stata fatta conoscere agli storici e ai lettori di mezzo mondo da Carlo Ginzburg ne Il formaggio e i vermi. Fasolo e il suo co-sceneggiatore Vecchi si riferiscono piuttosto al testo di Andrea Del Col Domenico Scandella detto Menocchio. I processi dell’Inquisizione (1583-1599) e ai verbali originali del primo processo subito dal mugnaio. La storia ci racconta che dopo il rito dell’abiura, la sentenza fu tramutata in carcere a vita. Menocchio sarà poi liberato pochi anni dopo, costretto a indossare costantemente il cosiddetto “abitello d’infamia” che lo identificava apertamente quale eretico, e infine riarrestato nel 1599 e condannato sul rogo perché continuava a dubitare della verginità di Maria, della verità di Vangeli e Sacramenti e a vedere la presenza di Dio negli elementi naturali e materiali del nostro mondo.
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TRAMA
Nel 1584 il mugnaio friulano Domenico Scandella, conosciuto col nome di Menocchio, fu processato dalla Chiesa con l’accusa di eresia. Si troverà così posto di fronte alla scelta dell’abiura delle sue teorie religiose per evitare la pena di morte.
CREDITI
Titolo: Menocchio / Regia: Alberto Fasulo / Sceneggiatura: Alberto Fasulo, Enrico Vecchi / Interpreti: Marcello Martini, Maurizio Fanin, Carlo Baldracchi, Nilla Patrizio, Emanuele Bertossi, Agnese Fior / Fotografia: Alberto Fasulo / Montaggio: Johannes Hiroshi Nakajma / Musica: Paolo Forte / Scenografia: Aton Špacapan Voncina / Produzione: Nefertiti Films, RAI Cinema, Hai Hui Entertainment / Italia- Romania, 2018 / Distribuzione: Nefertiti Films / Durata: 103 minuti.