Dopo l’America di Trump che in Cult, la stagione numero sette, assurge a paradigma di un altro tipo di orrore – quotidiano, contemporaneo e non scevro da fanatismi – la serie American Horror Story non poteva che spingersi ancora più in là. La fine del mondo, pertanto, altro non è che il naturale proseguimento del lunghissimo racconto televisivo firmato da Ryan Murphy e Brad Falchuk i quali, concludendo Il grande giorno (Great again, 7×11) dell’ultimo episodio della stagione precedente con la vittoria politica di una donna, ancora una volta dedicano a lei – e all’universo femminile inteso come forza ri-generatrice e nel contempo “pericolosa” forma di potere – questa new season intitolata Apocalypse.
Siamo in un futuro prossimo venturo e un missile balistico piomba sulla Terra dando inizio a un terrificante inverno nucleare. Quel che resta del nostro pianeta è solo un enorme cumulo di macerie, avvolte da una plumbea nebbia radioattiva letale per quei pochi sopravvissuti che si aggirano in un territorio disastrato, mentre coloro che riescono a non soccombere si trascinano come aggressivi zombie purulenti e spesso finiscono per mangiarsi l’un l’altro. Un manipolo di privilegiati è al riparo dal disastro nucleare per essersi “guadagnato” (chi grazie alla ricchezza, chi per delle straordinarie doti genetiche) un rifugio in una serie di Avamposti sparsi nel globo. Luoghi segreti e sotterranei in cui c’è autonomia di aria pulita e dai quali le persone “scelte” non possono, ovviamente, uscire. Più che all’eventuale ripopolamento della Terra lo scopo di questi posti sembra quello di selezionare ulteriormente gli individui, tanto che solo i più “degni” potranno accedere a Il Santuario, una sorta di Eldorado in cui pochissimi avranno la fortuna di mettere piede.
In perfetto stile Murphy e Falchuk, anche in Apocalypse nulla è davvero come appare.
Per i primi tre episodi, infatti, sembra che tutti i personaggi siano letteralmente pressati all’interno delle viscere del pianeta. L’Avamposto 3, teatro della scena, è un soffocante ambiente appena rischiarato dalle luci delle candele o del fuoco e i personaggi, negli abiti di ispirazione settecentesca, vi si muovono nervosamente come marionette viventi intrappolate su un proscenio. L’azione è circoscritta nelle stanze che paiono collocarsi una dentro l’altra in una sorta di scatola circolare in cui la regia amplifica il senso claustrofobico mentre il riverbero delle fiamme, del camino o dei candelieri, più che emanare calore trasmette i minacciosi bagliori di un girone infernale.
Non è un caso, allora, che si inizi proprio dalla fine (The End, 1×8) mostrando ciò che la scellerata natura umana, avida di potere, ha provocato a se stessa e al pianeta che abita. Quello che potrebbe risultare come il termine di tutte le cose in realtà apre le porte, letteralmente, ad un’altra forma di supremazia, generatrice di tutti i mali, anzi del Male in senso assoluto, ovvero l’Anticristo.
Gli spettatori più fedeli alla serie riconosceranno all’istante, in Michael Langdon (Cody Fern), la versione adulta del bimbo assassino che avevamo lasciato nella casa infestata di Murder House, in compagnia dell’altrettanto inquietante nonna Constance (Jessica Lange). Mai come in Apocalypse, infatti, l’intera trama si sviluppa intorno ai crossover e vede il ritorno dei personaggi non soltanto della magione stregata di Los Angeles al centro della prima stagione ma anche delle streghe di Coven, protagoniste della terza.
Si è più di una volta sottolineato come l’impianto del progetto American Horror Story sia, in realtà, un unicum narrativo e il legame tra le differenti storie si fa ora maggiormente evidente, tanto da portare alla luce quel filo nascosto che unisce spettri e streghe, anatemi e sortilegi che, simbolicamente, riflettono le paure e le pulsioni autodistruttive del mondo contemporaneo.
L’eterna lotta tra il Bene e il Male è qui declinata in una guerra (davvero impari?) senza esclusione di colpi tra l’antica furia delle arti magiche e la forza endemica del maleficio ed è, ancora una volta, uno scontro tra l’universo femminile e la stirpe dei maschi che vuole, se non proprio annientarlo, almeno sottometterlo. Langdon è, sì, figlio del Demonio ma, lungi dal mostrarsi nella sua funesta invincibilità, si presenta invece come un giovane rabbioso e feroce che disprezza la donna in ogni sua forma ma, nel contempo, ne brama l’attenzione cercando almeno in una – che sia sua nonna Constance o la sanguinaria Miriam Mead (Kathy Bates) – quella considerazione di cui suo padre lo priva un’ostinata assenza.
Nonostante il tema apocalittico questa stagione è attraversata da una godibilissima vena ironica che la rende, a prescindere dalle catastrofi che si susseguono, una delle più divertenti (e anche meno efferate) viste fino ad ora e, anche qui, le battute migliori sono riservate al personaggio maggiormente iconico di Coven, la strega Myrtle Snow (Frances Conroy) la cui lingua affilata («Non abbiamo imparato nulla da Attila? Da Erode? Da Mark Zuckerberg?») mira direttamente al cuore di un’America – ma non solo – in balìa di quel tipo di potere, politico ed economico, che la sta pericolosamente consumando.
Oltre ai rimandi agli eventi spaventosi di Murder House e alle vicende della Congrega (ritorna anche Stevie Nicks nei panni della Strega Bianca), Murphy e Falchuk si concedono qualche sfizioso divertissement chiamando Mutt (Billy Eichner) e Jeff (Evan Peters), due scienziati pazzi dalle improbabili acconciature, come la strampalata coppia di compari di un popolarissimo fumetto statunitense creato nel 1907, oltre ad inserire nella trama tanti riferimenti alle stagioni precedenti per riportare in vita certi protagonisti “cult” sui quali, però, non faremo spoiler.
Il breve, ma non casuale, accenno ad Hotel riporta così l’attenzione su un quesito che è, in Apocalypse, centrale: si può davvero cambiare il destino? Un potere questo che sembra essere precluso anche alle streghe più forti e tenaci di Coven, le quali, tuttavia, per tentare di fermare l’Anticristo, possono cercare di far leva sulle sue insicurezze; nel corso dei lunghi flashback non sono pochi infatti i momenti che mettono in evidenza la vulnerabilità di Michael. Allo stesso tempo, però, esasperare la sua sensibilità può paradossalmente renderlo più furioso, e, di conseguenza, ancora più potente. Quello interpretato da Cody Fern è dunque un personaggio lacerato da profonde, pericolose dicotomie.
Del resto l’universo di American Horror Story si è sempre basato su una serie di forti contrasti, sia dal punto di vista tematico che stilistico (basti pensare anche soltanto alla capacità di Murphy e Falchuk di far convivere gli orrori più atroci con uno spiccato gusto camp, talvolta al limite del demenziale); una caratteristica questa che in Apocalypse si fa ancora più evidente rispetto alle precedenti stagioni. I primi episodi, infatti, sono ambientati quasi esclusivamente negli interni dell’avamposto, che la macchina da presa esplora soprattutto attraverso campi lunghi, lente carrellate, minacciose riprese dall’alto, tutte soluzioni visive che rendono questa surreale claustrofobia ancora più soffocante, sinistramente maestosa, capace di trasmettere allo spettatore un senso di pericoloso ristagnamento. A partire dal quarto episodio, invece, ovvero quando il crossover fra la prima e la terza stagione è ancora più esplicito, il numero degli ambienti aumenta, il montaggio diventa più frenetico e, soprattutto, lo spettatore viene travolto da una serie inarrestabile e stordente di eventi che fa quasi passare in secondo piano qualsiasi luogo. Se, dunque, nella prima parte l’ambiente risulta essere così imponente da porsi quasi come una sorta di gigantesco personaggio, nella seconda è l’azione ad avere la meglio sul resto.
Non sempre, però, gli autori riescono a giostrare con abilità tutta questa frenesia: Apocalypse si chiude troppo frettolosamente, come se gli sceneggiatori, improvvisamente consapevoli di aver lasciato in sospeso un numero non indifferente di vicende, non sapessero bene come portare a termine la stagione in maniera credibile. Un involontario caos che, forse, Murphy e Falchuk avrebbero potuto evitare con l’aggiunta di almeno altri due o tre episodi.
Nonostante qualche difetto, Apocalypse lascia comunque il segno soprattutto per la sua capacità di suscitare una serie di riflessioni che vanno al di là del puro horror e del fantastico. Sin dall’inizio ci rendiamo infatti conto che le conseguenze di questa catastrofe immaginata dai due produttori non sono soltanto disastrose, ma anche paradossali, pericolosamente grottesche; in molti flashback, ad esempio, alcuni personaggi credono che le cose potranno davvero funzionare proprio con la fine del mondo. Per Miss Venable (Sarah Paulson) la vita può cominciare ad essere veramente vissuta grazie all’apocalisse: è difatti in seguito al disastro nucleare che l’enigmatica e inquietante donna inizia a dirigere con compiaciuta severità l’Avamposto 3, imponendo una serie di rigide regole e assurdi divieti, uno su tutti quello di fare sesso. Secondo Miss Venable, sarà soltanto grazie a questa sorta di distopia – non poi così lontana da quella descritta in un’altra celebre serie tv, The HandMaid’s Tale – che l’ordine naturale delle cose potrà essere ripristinato. In realtà, l’Avamposto 3 non rappresenta altro che una salvezza effimera, pronta in qualsiasi momento a rivelarsi fatalmente soffocante per i pochi superstiti; una feroce peculiarità dalla quale Venable trae non poco (perverso) piacere.
Al di là delle pericolose eccentricità del personaggio interpretato dalla Paulson, è impossibile non vedere tale inquietante microcosmo come una metafora del panorama tutt’altro che liberale dell’America di Trump. Da questo punto di vista, i due produttori sembrano volerci ricordare che, proprio a causa di personalità drammaticamente potenti come l’attuale presidente degli Stati Uniti, potremmo non essere così lontani da una vera e propria apocalisse, e che, forse, la fine sarebbe per certi aspetti addirittura preferibile allo stato in cui versa attualmente il mondo. Un pensiero, questo, capace di spaventare più di qualsiasi mostro o creatura satanica.
© CultFrame 12/2018
CREDITI
Titolo: American Horror Story – Apocalypse / Ideatori: Ryan Murphy e Brad Falchuk / Sceneggiatura: Ryan Murphy, Brad Falchuk, James Wong, Manny Coto, Tim Minear, John J. Gray, Crystal Liu, Adam Penn, Josh Green, Asha Michelle Wilson / Registi: Ryan Murphy, Jennifer Lynch, Bradley Buecker, Loni Peristere, Sheree Folkson, Gwyneth Horder-Payton, Jennifer Arnold, Sarah Paulson / Fotografia: Gavin Kelly / Montaggio: Ken Ramos, AJ van Zyl, Sean Aylward / Musica: Mc Quayle / Produttori esecutivi: Ryan Murphy, Brad Falchuk, Tim Minear, Bradley Buecker, Alexis Martin Woodall, James Wang / Casa di produzione: 20th Century Fox Television, Ryan Murphy Productions / Interpreti: Sarah Paulson, Cody Fern, Kathy Bates, Evan Peters, Billie Lourd, Cheyenne Jackson, Leslie Grossman, Adina Porter, Emma Roberts, Frances Conroy, Joan Collins, Gabourey Sidibe, Lily Rabe, Taissa Farmiga, Jessica Lange / Origine: USA / Emittente tv USA: FX / Emittente tv Italia: Fox / Episodi: 10 / Anno: 2018
SUL WEB
CULTFRAME. American Horror Story. Mitologia moderna dell’immaginario deforme. Un libro di Daniel Montigiani e Eleonora Saracino
CULTFRAME. American Horror Story – Stagione 4, Stagione 6, Stagione 7
Fox. American Horror Story