Robert Mapplethorpe – Coreografia per una mostra ⋅ A Napoli

SCRITTO DA
Maurizio G. De Bonis
Robert Mapplethorpe, White Gauze, 1984. © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission

Cosa è ancora possibile scrivere sull’opera fotografica di Robert Mapplethorpe? Cosa si può ancora mostrare riguardo la sua produzione artistica che non sia stato già esposto? Quale sforzo curatoriale può essere ancora messo in atto per fornire una visione possibilmente “nuova” del suo universo poetico?

Non è facile fornire risposte concrete a queste domande (che in genere potrebbero essere poste per tutti i più grandi esponenti dell’arte fotografica); non è per nulla scontato, soprattutto, ottenere esiti positivi da una mostra che cerca non tanto di fornire risposte decisive quanto piuttosto di porre altre, significative, domande, di aprire nuovi fronti di analisi e ricerca.

In tal senso, un tentativo concettualmente stimolante, e alla prova dei fatti riuscito, è quello messo in pratica nell’ambito dell’esposizione intitolata Robert Mapplethorpe – Coreografia per una mostra, allestita presso gli ampi spazi del Museo MADRE di Napoli (fino all’8 aprile 2019).

Vale la pena recarsi nel capoluogo campano per rendersi conto di come si possa creare nuova energia intellettuale quando si studia il lavoro di un autore (molto conosciuto) come Mapplethorpe ampliando lo spettro analitico della sua opera ed estrapolando il suo universo artistico dal ghetto della lingua fotografica. In definitiva, riposizionando la sua estetica in una dimensione linguistica molto più ampia e complessa. Ed è proprio questa operazione che hanno tentato di fare Laura Valente e Andrea Viliani, i due curatori dell’evento.

Il concept è molto chiaro: porre Mapplethorpe al centro di un meccanismo comparativo con opere d’arte soprattutto del passato (sia pittoriche che scultoree) e collocare la cifra espressiva dell’artista americano in un contesto di tipo performativo, basata anche sulla realizzazione di eventi creati per l’occasione come quello firmato da Olivier Dubois relativo alla performance di otto ballerini che si sono esibiti proprio in una sorta di connessione ideale con le immagini di Mapplethorpe.

Ma l’aspetto che ancor più ci interessa riguarda la costruzione di un ritmo espositivo mai monocorde, per certi versi sorprendente, che pone il visitatore all’interno di un processo di fruizione basato su un’alternanza di sentimenti soggettivi e che costringe chi guarda a sentirsi al centro di un percorso di stampo quasi teatrale. Ogni passaggio in una nuova sala rispecchia una sorta di un “cambio scena” che introduce a una nuova dimensione espressiva di Robert Mapplethorpe.

Robert Mapplethorpe, Thomas and Dovanna, 1986. © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission

Robert Mapplethorpe, Thomas and Dovanna, 1986. © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission

Il problema per il visitatore si pone, però, quando è costretto a relazionarsi con opere celeberrime di Mapplethorpe che potrebbero far pensare a una caduta in un ambito espositivo ovvio, basato sui “luoghi comuni” che le sue immagini, a un’analisi superficiale, potrebbero far emergere. Elenchiamoli questi possibili “luoghi comuni”: la ricerca meccanica della bellezza, la pratica estetizzante in ambito fotografico, l’ossessione evidente per la composizione e la simmetria, il desiderio di provocazione, una certa tendenza a un esibizionismo espressivo per taluni eccessivo.

Ebbene, tutti questi pericoli, che comunque l’opera fotografica di Mapplethorpe sfiora  costantemente, sono abilmente evitati, appunto, dalla contestualizzazione artistica e multi-linguistica che è alla base dell’impostazione curatoriale. Ma c’è di più, e questo “di più” è connesso all’essenza stessa della poetica di Mapplethorpe che, in ogni caso, risulta ben visibile nella mostra napoletana.

Quando ci si raffronta con la raffigurazione di un corpo inquadrato dall’artista newyorkese non bisogna fermarsi alla patina superficiale dell’immagine. Le sue fotografie vanno fruite eludendo le caratteristiche estetizzanti che sono immediatamente percepibili per cogliere uno strato più profondo che appare prettamente concettuale prima che formale.

Prendiamo ad esempio tre affermazioni dello stesso Mapplethorpe. La prima: “Sono ossessionato dalla bellezza. Voglio che tutto sia perfetto e ovviamente non lo è”. La seconda: “Ho scelto la fotografia perché mi sembrava lo strumento perfetto per commentare la follia dell’esistenza moderna”.  La terza: “ Ricerco l’inaspettato. Ricerco cose che non ho mai visto prima”.

Robert Mapplethorpe, Phillip Prioleau, 1982. © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission

Robert Mapplethorpe, Phillip Prioleau, 1982. © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission

Tali dichiarazioni sono emblematiche, chiarissime, e devono servire all’osservatore che si recherà al MADRE di Napoli per porsi correttamente davanti alle sue immagini. In primo luogo è necessario  divenire dei veri e propri recettori estetici, antenne in grado di cogliere quello scarto intellettuale che si rintraccia in ogni sua fotografia e che genera in chi guarda un sentimento di tipo soggettivo, quindi unico. In secondo luogo, bisogna identificare la natura di questo scarto, cioè quella spinta poetica di Mapplethorpe  che permette di collocare le sue composizioni (anche quelle più esplicite) nella dimensione del mito (in senso archetipico) e fuori dalla palude della sua formazione visuale che, come afferma egli stesso, deriva dalla sua educazione cattolica.

Per tale motivo, a nostra avviso, i corpi turgidi, atletici, densi e armoniosi posti al centro della linea espressiva di Mapplethorpe, e finanche l’esibizione di organi genitali, superano (fortunatamente) il concetto di ricerca della bellezza per divenire visualizzazione estetica di macchine comunicanti teatrali e allo stesso tempo scultoree. In definitiva, l’artista visivo americano ha per tutta la sua parabola creativa lavorato nell’area del significante liberando l’idea del corpo (e dunque quella della bellezza) e la concezione dell’immagine dalla maledizione del significato. Mapplethorpe non rincorre il contenuto ma cerca l’astrazione della forma nella sua mitizzazione.

In tal senso, il concept della mostra del MADRE ha colto perfettamente nel segno riposizionando la poetica di Mapplethorpe in un territorio meticcio, tra performance, danza, teatro, pittura e scultura, riposizionamento che rende vana la ricerca di un significato a favore, invece, di un percorso di fruizione in cui il visitatore non può che cadere, in modo sano, in balìa di quei significanti che si annidano nelle pieghe di tutte le lingue artistiche, sia perfomative che visuali.

© CultFrame 01/2019

INFORMAZIONI
Mostra: Robert Mapplethorpe – Coreografia per una mostra / A cura di: Laura Valente e Andrea Viliani
Dal 15 dicembre 2018 all’8 aprile 2019
Museo MADRE, Via Settembrini 79, Napoli / Tel: 081.19737254 / info@madrenapoli.it
Orario: lunedì, mercoledì – sabato 10.00 – 19.30 / domenica 10.00 – 20.00 / chiuso martedì
Biglietto: intero: 8 euro / ridotto 4 euro / gratuito ogni prima domenica del mese

SUL WEB
The Robert Mapplethorpe Foundation
Museo MADRE, Napoli

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Maurizio G. De Bonis

Maurizio G. De Bonis è critico cinematografico e delle arti visive, curatore, saggista e giornalista. È direttore responsabile di Cultframe – Arti Visive, è stato direttore di CineCriticaWeb e responsabile della comunicazione del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Insegna Cinema e immagine documentaria e Arti Visive Comparate presso la Scuola Biennale di Fotografia di Officine Fotografiche Roma. Ha pubblicato libri sulla fotografia contemporanea e sui rapporti tra cinema e fotografia (Postcart), sulla Shoah nelle arti visive (Onyx) e ha co-curato Cinema Israeliano Contemporaneo (Marsilio). Ha fondato il Gruppo di Ricerca Satantango per il quale ha curato il libro "Eufonie", omaggio al regista ungherese Bela Tarr. È Vice Presidente di Punto di Svista - Cultura visuale, progetti, ricerca.

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