Il fenomeno dei foreign fighters che lasciano l’Europa per unirsi alla jihad in Siria è oramai filtrato anche attraverso le maglie dell’immaginario cinematografico. Il nuovo lungometraggio di André Téchiné lo testimonia ma, prima di lui, altri negli ultimi anni si sono misurati con questa realtà avendo come esito opere tra loro molto diverse. Un primo esempio è il film televisivo franco-belga La route d’Istamboul di Rachid Bouchareb, regista che in London river si era già dimostrato capace di grande sensibilità nel trattare il rapporto tra occidente e terrorismo islamico. In quel film, presentato alla Berlinale nel 2016, la madre di una ragazzina belga intraprende un viaggio per andare a riprendersi la figlia fin dentro l’inferno in cui ha deciso di vivere e morire. Nel 2018, sempre alla Berlinale, era passato l’interessante Profile di Timur Bekmambetov, desktop movie di pura tensione ispirato alla vera storia della reporter Anna Erelle in cui tutta l’azione si svolgeva sulla superficie dello schermo del pc della protagonista, una giornalista investigativa britannica che per saperne di più sulle reti locali di reclutamento di jihadisti, si fingeva lei stessa intenzionata a partire per sostenere l’ISIS. Del 2017 è invece Also known as Jihadi di Éric Baudelaire, che adottando un linguaggio a cavallo tra documentario e saggio ricostruisce la vicenda di un giovane jihadista francese arrestato attraverso frammenti di documenti autentici di verbali di polizia e dossier del processo alternati a fotografie dei luoghi attraverso i quali si era svolta la sua vita: la scuola, il quartiere, l’università, il luogo di lavoro.
Come Bouchareb e pur basandosi sulle testimonianze reali raccolte da David Thomson nel volume Les français jihadistes, anche Téchiné intraprende la strada della narrazione di finzione e lo fa insieme al grande regista irakeno esule in Francia Amer Alwan e a una giovane sceneggiatrice in sintonia con la contemporaneità e le sue contraddizioni quale Léa Mysius, autrice del bel film d’esordio Ava, nonché della sceneggiatura de La strada dei Samouni di Stefano Savona. Dopo il felice sodalizio alla scrittura con la regista Céline Sciamma che aveva avuto come esito Quando hai 17 anni, Téchiné torna dunque a ritrarre giovani personaggi alle prese con una difficoltosa ricerca di identità e con un impegnativo confronto intergenerazionale.
In questo caso, la nonna interpretata da Deneuve, francese cresciuta però in Algeria e attorniata da amici e collaboratori magrebini e a cui Téchiné dedica due carrelli speculari in apertura e chiusura del racconto, rappresenta lo sbigottimento per una “scelta”, quella del nipote e della sua migliore amica d’infanzia, che non può comprendere e che il film ci ribadisce più volte essere indecifrabile dal “nostro” punto di vista. Il giovane Alex, infatti, dopo aver fallito un concorso per diventare medico non sa cosa fare del proprio futuro, non sa come essere uomo, anche perché – e il film lo suggerisce sottilmente – non aderisce al modello di virilità dominante e non vuole rinserrarsi nell’alveo famigliare del maneggio gestito dalla nonna.
È proprio da tale spaesamento, dagli scacchi subiti e dalla sensazione di non poter avere un ruolo nella società contemporanea che nasce la volontà di accostarsi a una religione altra, a un modo differente di intendere la vita e la morte. Alex è rimasto oltretutto orfano di madre, deceduta in un incidente subacqueo, con un padre che si è rifatto una famiglia in Guadalupe: tutti elementi decisivi della sua psicologia, che non fanno però venir meno bensì accentuano il perturbante del votarsi alla “guerra santa” di un ragazzo di provincia uguale a tanti altri suoi coetanei europei. Un mix di psicologia e di azione, sempre filmata in modo teso e pulito, che caratterizza oramai da decenni il cinema classico e ben scritto del settantacinquenne Téchiné, che però qui non sembra sempre pienamente a suo agio con la materia trattata. Forse perché per un regista più a suo agio con gli interni e con le intimità che con le dinamiche della storia e della politica non è facile narrare una Francia oggi caoticamente preda di paure securitarie e di una ricerca violenta di valori assoluti e di alternative allo strapotere delle logiche di mercato, in cui una laicità a corrente alternata spesso si rivela morbida con il fanatismo cattolico familista e rigida nei confronti dell’islam.
© CultFrame 02/2019
TRAMA
Muriel, proprietaria di un maneggio, non vede l’ora di ricevere la visita del nipote Alex in procinto di partire per il Canada. Nei pochi giorni che trascorrono insieme, la nonna si rende conto che il ragazzo non solo si è convertito all’islam ma anche che la reale destinazione del suo viaggio non è il Canada bensì la Siria, dove Alex vorrebbe unirsi come foreign fighter alle fila dell’ISIS. La donna tenterà tutto ciò che le è possibile per impedire al nipote di partire.
CREDITI
Titolo originale: L’adieu à la nuit / Regia: André Téchiné / Sceneggiatura: André Téchiné e Léa Mysius da un soggetto di André Téchiné e Amer Alwan / Fotografia: Julien Hirsch / Montaggio: Albertine Lastera / Musica: Alexis Rault / Scenografia: Carlos Conti / Interpreti: Catherine Deneuve, Kacey Mottet Klein, Oulaya Amamra, Stephane Bak, Kamel Labroudi, Mohamed Djouhri, Amer Alwan, Jacques Nolot / Produzione: Olivier Delbosc / Francia, 2019 / Durata: 103 minuti.
SUL WEB
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Filmografia di André Téchiné
Berlinale – Il sito