In un’annata della Berlinale, la settantesima, in cui il Festival ha dovuto sospendere lo storico premio Alfred Bauer e commissionare a un’equipe di ricercatori un’inchiesta sul passato nazista del suo primo direttore, recentemente riemerso dagli archivi, c’è una sezione che si celebra senza tanti chiaroscuri: Forum festeggia infatti cinquanta edizioni da quando, nel 1971, nacque sulla scia delle polemiche scatenate l’anno precedente dalla proiezione del film antimilitarista O.K. di Michael Verhoeven, che è stato riproposto quest’anno in una selezione di 28 opere lunghe e corte viste in quel primo “Forum Internazionale del nuovo cinema” animato dagli Amici della Deutsche Kinemathek, istituzione all’origine della sala Arsenal. Non è dunque un caso che proprio quest’ultima abbia ospitato, nel primo giorno della Berlinale70, l’apertura del Forum50 con un programma di titoli di Chris Marker che comprende anche il ritratto del noto editore engagé Maspero, les mots ont un sens (1970), appena restaurato proprio da Arsenal e dal laboratorio L’immagine ritrovata di Bologna.
A seguire, nella giornata d’apertura è arrivato Grève ou crève di Jonathan Rescigno da Forbach, la città mineraria del Nordest della Francia tramutatasi in roccaforte dell’elettorato lepenista, come raccontava Retour à Forbach (2017) di Régis Sauder. Nel titolo scelto da Rescigno possono risuonare tanto le lotte documentate da Marker cinquant’anni fa a Sochaux (feudo della Peugeot) quanto le proteste dei lavoratori francesi che negli ultimi mesi stanno paralizzando il paese contro la riforma delle pensioni di matrice macroniana. Ma mentre Marker editò a caldo con il gruppo Medvedkin in Sochaux, 11 juin 1968 le immagini degli scontri tra gli operai e la polizia che causò quel giorno 2 morti e 150 feriti, intervistandone testimoni e protagonisti, e incontrò poi in Les trois-quarts de la vie i giovani operai arruolati a migliaia in tutta la Francia dalla seconda azienda automobilistica dell’epoca, Rescigno perlustra la Forbach di oggi dove il mondo operaio sembra scomparso o relegato in un Museo sulla storia delle miniere.
Grève ou crève (motto a cui è intitolata una mostra di reperti del lavoro e della militanza allestita da un ex-minatore, contraltare del Museo ufficiale suddetto) riscopre le ferite del passato attraverso le immagini di repertorio, per lo più video realizzati dagli stessi scioperanti durante l’ultima grande vertenza dei minatori di metà anni Novanta; e insieme al ricordo di quei fatti terminali di un’epopea secolare, filma l’ingiustizia presente di un lavoratore non indennizzato per un infortunio a causa della falsa testimonianza dei suoi padroni e le quotidianità dei frequentatori di una palestra di boxe e di una coppia di ragazzi magrebini. Uno di questi è nipote di un immigrato minatore e di un pugile noto nella zona. Tramite lo sport, allora come oggi, i subalterni sfogano la rabbia e cercano di costruirsi un futuro. La boxe appare quindi la trasposizione in una cornice consensuale di quella lotta per la sopravvivenza che si combatte ogni giorno nell’arena sociale senza essere mai davvero ‘ad armi pari’, come invece accade sul ring.
Il dialogo tra cinema del passato e del presente attento a questi temi è proseguito durante tutto il 50° Forum con altri giochi di rimandi. Evidente, per esempio, quello tra Eine Sache, die sich versteht (15x), documentario didattico-politico del 1971 di Hartmut Bitomsky e Harun Farocki, e Oeconomia (2019) di Carmen Losmann che pretende (e non sempre ottiene) da una serie di alti dirigenti di banche, industrie e assicurazioni un’analisi onesta del sistema finanziario contemporaneo al fine di illustrare il meccanismo della creazione di debito come fondante il capitalismo. Desktop-movie d’argomento economico (con la continua ripresa di un desktop di computer che in funzione strutturante riporta dati e interrogativi dell’autrice), figlio della crisi dell’economia globale, il film di Losmann e quello del 1971 che illustrava in 15 episodi i concetti base della teoria marxiana del capitale pongono in definitiva lo stesso interrogativo: come si crea valore e ricchezza, se non col debito e con lo sfruttamento del pianeta e dell’uomo sull’uomo?
Tra gli altri film presentati in questa sezione della Berlinale 2020 si segnala anche Responsabilidad empresarial di Jonathan Perel, tratto dall’inchiesta Responsabilidad empresarial en delitos de lesa humanidad. Represión a trabajadores durante el terrorismo de Estado (2015), scaricabile in lingua spagnola, che svela decine di episodi di correità tra grandi gruppi industriali (Fiat compresa) e la sanguinosa dittatura argentina degli anni 1976-1983. Il film è costruito come un’atlante di strade e fabbriche dell’Argentina di oggi componendo una sorta di catalogo visivo del contenuto del libro a cui è ispirato e la cui diffusione, ostracizzata in patria, intende promuovere. In modo non troppo diverso, ma costituito da 12 piani fissi girati in 16mm, Generations di Lynne Siefert mostra invece l’incombere in aeree residenziali o ricreative di altrettante centrali energetiche a carbone tuttora attive negli Stati Uniti. Paesaggi di un Antropocene non ancora evolutosi verso forme sostenibili di produzione di energia.
Tra il recupero di pellicole storiche quali Eldridge Cleaver, Black Panther di William Klein o Angela. Portrait of a Revolutionary di Yolande du Luart e le nuove proposte (una menzione meritano i due titoli presentati dal rumeno Radu Jude), la selezione del Forum 2020 si è dunque confermata ricca di opere con uno sguardo vivace e acuto sulla contemporaneità. In uno dei più importanti festival europei quale è Berlino queste non sono però mancate anche in altre sezioni.
Va qui citato almeno un altro esempio visto in Perspektive Deutsches Kino: in Automotive, co-prodotto dalla Edgar Reitz Filmstiftung, il giovane regista Jonas Heldt offre il ritratto di due lavoratrici di Audi (tra i maggiori sponsor della Berlinale), una dipendente a termine in una azienda a cui la grande fabbrica appalta la logistica e l’altra responsabile delle risorse umane. Mentre le due raccontano la propria quotidianità e le rispettive aspirazioni, l’azienda deve far fronte allo scandalo emissioni e al relativo taglio della produzione che costa il posto all’operaia interinale. Ma anche dalle attività della ‘cacciatrice di teste’ emerge come le pratiche dell’esternalizzazione e del continuo ricambio di forza lavoro a tutti i livelli siano del tutto funzionali alla domanda di flessibilità totale da parte del mercato. Inoltre, lo ‘spettro’ dell’automazione (già applicata in larga scala, come si vede in Automotive a Györ, in Ungheria, in uno dei più grandi siti europei di produzione di motori) minaccia in particolare il posto dell’operaia che però, forse proprio grazie al ruolo avuto nel film, viene infine riassunta, a differenza di altri suoi compagni.
Ci sono comunque molte maniere di filmare l’economia, il lavoro e il non-lavoro odierni, anche in modi non documentari. Nel Concorso principale della Berlinale70, Effacer l’historique (letteralmente cancellare la cronologia ma anche l’intera storia del lavoro novecentesco, che appare lontanissima) di Benoît Delépine e Gustave Kervern sceglie il registro grottesco caro ai due autori per una farsa sull’impatto delle sempre più pervasive logiche di messa a valore del tempo di vita dei cittadini ridotti a consumatori indebitati. Ricco di trovate, il film racconta le peripezie di un trio di francesi qualunque, conosciutisi a una protesta dei gilets jaunes, tra call center e intelligenza artificiale, ciclofattorini, big data e cyber-truffe. Sono ormai anni che, anche al cinema, la classe media va all’inferno e la solidarietà tra gli immiseriti non è sempre sufficiente a cambiare le cose, cosa di cui sembra essersi convinto persino Ken Loach. Secoli di cultura popolare testimoniano però che anche una risata può essere una forma di resistenza e ciò vale senz’altro per gli squinternati personaggi di Delépine e Kervern.
© CultFrame 02/2020
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