Voglio ribadire un concetto già espresso in numerose occasioni: nell’ambito di una cinematografia italiana (di oggi) caratterizzata da una scarsa qualità estetica ed espressiva, il caso di Fabrizio Ferraro rappresenta pienamente l’eccezione che conferma la regola, una delle poche eccezioni in un panorama creativo di casa nostra la cui involuzione appare sempre più inarrestabile.
Il cinema di Ferraro è totalmente “altro” per quel che riguarda questioni stilistiche, estetiche e tematiche ma anche per quel che concerne l’idea che è alla sua base: non dover per forza piegare l’espressione filmica alle regole di un mercato della produzione e della distribuzione che tende a standardizzare tutto in nome di una presunta fruibilità di massa che considera l’eccezionalità della diversità come un demonio da emarginare. I film di Fabrizio Ferraro sono fuori da ogni regola, a cominciare dal fatto che spesso è quasi impossibile poterli incasellare in un genere o in una tipologia precisa.
Ma l’aspetto che mi ha sempre colpito di più riguarda l’essenza stessa del suo modo di fare cinema. Mi è già capitato di scrivere come i film di Ferraro siano filmanti e non filmati. Le sue immagini sono vive, mutanti, rivelatrici (in modo non banale) in ogni istante. Aprono sempre dei nuovi fronti interpretativi e non consegnano allo spettatore delle costruzioni visuali tiranniche che obbligano chi guarda a subire passivamente. Le sue inquadrature sono sempre non prevedibili, non convenzionali, fuori misura, e non narrano banalmente una realtà (meno che mai la rappresentano), la scrutano liberamente, anarchicamente, rivelando senza spiegare didascalicamente e pedagogicamente e ponendo sempre nuove domande.
In tal senso, il suo ultimo lavoro intitolato Checkpoint Berlin, rappresenta un’ulteriore evoluzione della sua pratica cinematografica, la conferma (ove mai ce ne fosse ancora bisogno) della sincerità espressiva che caratterizza le sue opere.
Le vicende di un “mitico” passeur che portava misteriosamente, attraverso cunicoli e boschi, persone che volevano passare dalla parte est di Berlino a quella ovest vengono delineate grazie a un tono narrativo poetico, riflessivo, introspettivo, filosofico. Non c’è azione in senso banalmente cinematografico, c’è azione in senso intellettuale e di pensiero. È la visione dell’autore, che finisce per combaciare con quella dello spettatore, a essere pura azione dello sguardo.
L’attraversamento dei confini, l’abbattimento delle separazioni, lo spostamento verso la libertà, l’ossessione di un sogno (forse), il mito dell’altro, la ricerca d un senso possibile delle cose e della vita, sono tutti elementi che Fabrizio Ferraro rende attraverso immagini allo stesso tempo realistiche e metaforiche e grazie ad accorgimenti narrativi che diventano spazi di riflessione sulle questioni centrali dell’esistenza umana.
La Berlino di oggi, diventata un concentrato turistico forse senza senso, non ha nulla a che vedere con la Berlino di ieri contraddistinta dall’angoscia umana che la separazione del muro portava con sé.
Ferraro delinea una questione che allunga le sue radici nella storia recente (e non solo) dell’umanità: il conflitto tra la memoria e la vacua e rutilante civiltà del presente. È una lotta che vede, generalmente, la memoria soccombere, nonostante gli sforzi per istituzionalizzarla, anzi forse proprio perché si cerca di fare ciò.
Così, come “luogo” della salvezza dei sentimenti e dell’umanità in genere non rimane paradossalmente che l’oblio. L’oblio, però, non è l’abbandono totale di tutto, anch’esso diviene un “luogo” frequentato da pochi, da alcuni, da quelli che non smettono di cercare, di interrogarsi, al di là delle norme sociali, commerciali, istituzionali, nazionali, statali. È questo il caso del protagonista di Checkpoint Berlin: un regista che segue le orme perdute di uno zio impazzito scomparso nel nulla (ma forse ancora vivo) che nella Berlino dell’epoca del muro aiutava, senza dire una parola e senza chiedere nulla in cambio, chi voleva scappare verso l’Ovest, verso un destino ritenuto migliore che poi, comunque, riservava molte delusioni.
La sequenza dell’attraversamento del “passaggio misterioso” tra le due Berlino è uno dei brani più impressionanti del film, una discesa agli inferi, un inabissarsi nel nulla che sembra non concludersi mai e che si risolve in una riemersione che, nel bagliore di una luce mistica, sembra potentemente catartica ma che forse sarà solo l’ennesima illusione.
© CultFrame 04/2020
TRAMA
Berlino, oggi. Un regista si trova nella città tedesca per la proiezione di un suo film. Girà per la città, per i luoghi della memoria delle divisione del muterò e ripensa alle vicende di un suo zio scomparso nel nulla che che durante la separazione della città portava le persone dall’ente all’ovest, attraverso un percorso segreto e misterioso, senza chieder nulla in cambio.
CREDITI
Titolo: Checkpoint Berlin / Sceneggiatura, fotografia, regia, montaggio: Fabrizio Ferraro / Camera: Giancarlo Leggeri / Suono: Simone Frati / Costumi e scenografie: Stefano Gaeta, Federica Formaggi / Interpreti: Alessandro Carlini, Marcello Fagiani, Fabio Fusco, Marta Reggio, Marco Ciampani / Voci: Caterina Gueli, Freddy Paul Grunert / Fotografia: Simone Borgna / Produzione: Passepartout con Rai Cinema / Distribuzione: Boudu / Anno: 2019 / Durata: 64 min.
SUL WEB
Filmografia di Fabrizio Ferraro