Nel video pubblicato su Cultframe TV dal titolo Alain Resnais e Michelangelo Antonioni: la loro influenza sulla fotografia contemporanea, Maurizio G. De Bonis, durante un’interessante riflessione sul rapporto tra cinema e fotografia che invito vivamente ad ascoltare, cita l’artista canadese Jeff Wall definendolo come “forse il più grande fotografo dei nostri tempi”. Una figura imprescindibile nel panorama della fotografia contemporanea, la cui opera ben si presta ad un approfondimento su un aspetto peculiare della sua cifra stilistica, ovvero il modo in cui rappresenta gli spazi interni e vi colloca la figura umana.
Tra il 2004 e il 2005 Jeff Wall realizza l’opera A View from an Apartment una fotografia a colori montata in trasparenza in una lightbox di grandi dimensioni (1,67 m x 2,44 m), in cui sono rappresentate due donne in un ambiente domestico che si affaccia sull’esterno attraverso una grande finestra, essa stessa immagine dentro l’immagine. A uno sguardo superficiale si presenta come uno scatto rubato in un momento di quotidianità, in realtà è un’opera magistrale, dove tutto è costruito nei minimi dettagli, dalla stanza in cui si svolge la scena, che si può considerare un vero e proprio set cinematografico, alla realizzazione e alla post produzione. Niente è lasciato al caso, sebbene l’effetto finale possa dichiarare, volutamente, tutt’altro.
L’ambiente è casalingo, la scena rappresenta una quotidianità familiare, ma sebbene sia tutto più o meno riconoscibile, l’immagine genera nell’osservatore un sentimento ben lontano dall’idea romantica e artificiosa di focolare domestico. L’atmosfera è ambigua e crea tensione, annullando ogni confortante certezza in chi guarda. Le due donne sono congelate nella fissità del momento, condividono fisicamente lo stesso ambiente, ma ben poco d’altro. La distanza relazionale che c’è tra loro appare enormemente più ampia di quella che, in realtà, le separa nella stanza.
Non vorrei tuttavia addentrarmi oltre su quest’opera di Wall dall’indiscusso valore artistico, piuttosto agganciarmi ad alcuni aspetti quali l’apparente spontaneità della scena rappresentata e il rapporto figura-spazio per una riflessione che porta nell’attualità.
La prima metà del 2020 è stata caratterizzata da un blocco planetario che ha costretto in casa milioni di persone. In questa condizione forzata si è dovuto necessariamente fare i conti con lo spazio della propria abitazione che non sempre si è dimostrata rifugio confortante, anzi perlopiù si è rivelata un luogo del tutto sconosciuto e ha determinato il manifestarsi di sentimenti contrastanti affidati ad immagini in cui, molto spesso, l’ambiente domestico è esso stesso soggetto ancor prima che sfondo per ciò che vi è rappresentato. L’osservazione degli ambienti diventa un modo di riflettere sugli stati d’animo di chi li frequenta: talvolta sono spazi fatti di relazioni, talaltra di relazioni negate.
In questa direzione mi hanno colpito i profili social di due artiste israeliane, Orit Siman-Tov e Aya Eliav, in cui sono pubblicate interessanti immagini correlate al periodo storico che stiamo attraversando.
Orit Siman-Tov è un’artista che si muove abitualmente nell’ambito della fotografia di paesaggio e si confronta costantemente sia con gli spazi esterni che interni, senza tralasciare i risvolti sociali e psicologici che connotano il paesaggio stesso, come si può osservare nei lavori pubblicati sul suo sito personale.
Una delle sue immagini realizzate durante il periodo della quarantena, che mi ha richiamato immediatamente l’attenzione, è pubblicata in un post Instagram datato 28 aprile 2020. Da un punto di vista leggermente rialzato, sono ripresi i componenti della famiglia sdraiati sul letto, immersi nelle loro attività, senza reciproche interazioni. Lo spazio condiviso della camera da letto è stretto, chiuso a qualsiasi relazione interna ed esterna, come sottolinea la finestra con l’avvolgibile abbassato alle loro spalle. L’unica presenza vigile nella stanza pare essere il personaggio del disegno appeso alla parete.
Altrettanto interessante in questo senso ho trovato l’immagine del post Facebook datato 26 aprile 2020. Nuovamente ritornano i componenti della famiglia, questa volta seduti sul divano intenti a leggere, ma altrettanto distanti sia tra loro che nei confronti di chi li sta osservando. Nuovamente ritorna una finestra alle loro spalle, stavolta aperta, ma il rapporto con l’esterno è ugualmente negato dalle fronde di un albero che non lasciano intravedere altro che la loro trama, quasi un grafismo.
Decisamente stimolanti, inoltre, sono le varie immagini realizzate nell’ambiente della cucina, tramite le quali l’artista avvia ad una riflessione non solo in rapporto allo spazio, ma anche al tempo. Le inquadrature si ripetono, sono realizzate perlopiù dal medesimo punto di vista frontale, leggermente rialzato, la luce è forte, naturale, non tende in alcun modo a drammatizzare la scena o a portare l’attenzione dell’osservatore su certi elementi piuttosto che altri, anzi lo lascia libero di indagare il suo spazio quotidiano come meglio crede. Il tavolo, fulcro di questa serie di immagini, diventa spazio condiviso non solo dai componenti della famiglia, ma anche da noi spettatori. Contemporaneamente scandisce lo scorrere del tempo: giorno dopo giorno si ripetono le azioni con una sorta di ritualità. In questo senso sono estremamente significative alcune coppie di immagini che si distinguono per impercettibili differenze l’una dall’altra, dalla disposizione degli oggetti, alla loro assenza o presenza. L’azione ci è negata, ma in realtà Orit Siman-Tov ci porta dentro il suo mondo e ci coinvolge, dandoci la possibilità di farlo nostro.
In maniera altrettanto decisa mi ha impressionato il modo in cui l’artista Aya Eliav ha narrato i sentimenti che in lei ha generato la condizione di reclusione forzata dei mesi appena passati.
Aya Eliav, israeliana, vive a Barcellona e, come si può approfondire sul suo sito personale, è solita rappresentare il mondo che la circonda con uno sguardo intimo e riflessivo che si riscontra nelle varie pratiche artistiche in cui si cimenta, dalla pittura, al video ed alla performance. Sul suo profilo Facebook ha pubblicato una serie di post attraverso i quali delinea un percorso per immagini e parole e, senza scendere nel didascalico, ci narra la sua esperienza in quarantena, in un modo schietto e diretto in cui è stato facile ritrovarsi.
Nel post datato 21 aprile 2020, il primo della serie, un testo carico emotivamente descrive il suo stato d’animo. La lontananza dallo studio diventa sofferenza: manca lo spazio, manca il tempo per creare; la giornata è assorbita da faccende domestiche e la convivenza con i componenti della famiglia non è sempre tranquilla. L’urgenza di esprimere questa condizione trova sfogo nel disegno, come le viene consigliato e come a sua volta consiglia, dopo un’iniziale diffidenza. Fogli e pastelli colorati sono il mezzo attraverso cui l’artista osserva se stessa e l’ambiente in cui vive durante questa nuova condizione.
Un’immagine che rappresenta una cesta carica di biancheria ci introduce nell’anomala quotidianità che sta vivendo. Il disagio espresso dalle parole viene restituito con la stessa chiarezza nel disegno: c’è tensione, come trapela da un tratto veloce e deciso e da una luce che scolpisce le forme, sebbene talvolta i colori, vivi e brillanti, non drammatizzino eccessivamente l’atmosfera.
Nelle immagini che compongono la serie ho trovato di grande interesse il modo di indagare lo spazio domestico che, per molti aspetti, è in assonanza con quanto emerge dalle immagini di Orit Siman-Tov. Nelle parole ritorna il concetto di tempo che si ripete sempre uguale, così come nei disegni ritornano i componenti della famiglia, osservati nelle loro attività quotidiane, essi stessi territori nuovi, che vengono esplorati con un distacco tale da lasciare un accesso per l’osservatore che può, in tal modo, condividerne i sentimenti in maniera del tutto personale.
In tal senso ha attirato la mia attenzione il post del 22 aprile 2020: dall’alto verso il basso lo sguardo si poggia sulla figlia, ripresa di spalle al computer, ma non lo sguardo della madre che mostra la sua bambina, bensì quello dell’artista che osserva attentamente ciò che la circonda, come se non lo conoscesse, e coinvolge lo spettatore portandolo con sé dentro l’immagine. Così come il ritratto, sempre della figlia, del 26 aprile. L’intimità e la delicatezza della scena sono rotte da uno sguardo assente, che fugge altrove. Non ci sono complicità e dialogo né con l’osservatore, né con l’ambiente circostante. La distanza che si ravvisa è enorme e lascia spazio alla riflessione di chi guarda. Pure il pappagallo Nina si scruta nello specchio, immerso in uno spazio senza tempo, che ha perso ogni connotazione col reale.
Entrambe le artiste, sebbene utilizzino tecniche differenti, sono accomunate dalla produzione di immagini che presentano un ambiente domestico indagato, di volta in volta, come un luogo sconosciuto, in cui ritrovare prima di tutto se stessi. Non c’è interesse per il “salotto buono”, che ritragga gli abitanti della casa ripresi in bella posa. Lo spazio, vissuto nella quotidianità, viene messo a nudo con le sue imperfezioni e le sue fragilità, riflesso di chi lo abita.
© CultFrame 06/2020
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