Bernardo Bertolucci moriva il 26 novembre del 2018; la sua scomparsa arrivava a conclusione di una straordinaria parabola professionale e umana. Il suo, infatti, era (ed è tuttora, ovviamente) un cinema famoso in tutto il mondo, per i tanti premi internazionali ricevuti e per gli indiscutibili successi mondiali di alcuni dei suoi più significativi lavori.
Eppure, proprio questa sua notorietà planetaria, accompagnata da qualche “scandalo”, e anche da polemiche stantie verificatesi negli ultimi tempi della sua vita, ha a mio avviso sempre rappresentato una sorta di piccolo limite. Non certo per quel che riguarda la qualità del suo cinema, quasi sempre ineguagliabile, quanto piuttosto per una specie di rumore di fondo (inutile e fastidioso) che a volte ha circondato il suo nome, rumore di fondo non causato dall’essenza quasi sempre eccelsa dei suoi film ma da qualcosa che era fuori dal suo cinema e che accompagnava la sua immagine più pubblica (compresi gli echi roboanti, a mio avviso controproducenti, degli Oscar vinti).
Detto ciò, (ri)parto da un’affermazione che potrà sembrare “definitiva” (e per quel che mi riguarda lo è): Bernardo Bertolucci è stato uno dei massimi rappresentati del cinema mondiale del XX secolo, e ancor di più uno dei grandi maestri della cinematografica italiana.
È possibile trovare riscontro riguardo questa posizione critica nel libro edito da Gremese nei primi mesi del 2020 (pre-lockdown) intitolato proprio Il cinema di Bernardo Bertolucci. L’autore di questo dettagliatissimo studio è Piero Spila, Vice Presidente del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani e condirettore della rivista specializzata CineCritica.
Ebbene, non v’è alcun dubbio sul fatto che Spila sia uno dei massimi esperti del cinema di Bertolucci e ciò rappresenta un punto di partenza fondamentale per un libro che, a un’attenta lettura, presenta un valore aggiunto che ora andrò a spiegare.
Il volume edito da Gremese, infatti, non è il solito testo scritto in un arido “critichese” para-scientifico, non c’è il solito birignao intellettualistico di certa critica sterilmente auto-referenziale, così come spesso capita di vedere quando ci si imbatte in un libro di cinema destinato alla riflessione sull’opera di un regista. Si avverte, infatti, dalla prima all’ultima pagina una componente in più, diversa: la vicinanza umana e la partecipazione emotiva e personale di Spila nei riguardi di Bertolucci persona e di Bertolucci cineasta. Questa particolare disposizione d’animo dell’autore è perfettamente coniugata a un’evidente competenza sulla materia cinematografica in generale (cosa non da poco) e sull’universo creativo di Bertolucci in particolare. Si tratta di un libro, in sostanza, scritto con colta passione cinefila, conoscenza assoluta del cinema di Bertolucci, e allo stesso tempo con sincera lucidità intellettuale e culturale.
Per chi, come chi redige questo articolo, è abituato a leggere molti libri di cinema, un volume come quello scritto da Spila rappresenta una ventata di umanità e profondità rara da incontrare nell’editoria cinematografica contemporanea, spesso caratterizzata da una sorta di insopportabile uniformità linguistica e analitica. E l’ulteriore aspetto di interesse di questo testo è che sia l’impianto dell’opera che il linguaggio sul quale è stata costruita sono di una scintillante chiarezza espositiva.
Queste lodi, che potrebbero per alcuni sembrare fin troppo dilatate, intendono solo tradurre in parole trasparenti il mio personale piacere di lettore assiduo di testi di argomento filmico che, una volta tanto, non è stato colto da noia e, anzi, si è lasciato trasportare da un flusso critico libero ed entusiasmante dentro la poetica e l’estetica di Bertolucci, il tutto con estrema fluidità.
Il percorso critico di Spila naturalmente si estende dal primo lungometraggio La comare secca del 1962 all’ultimo Io e te del 2012, passando per capolavori come Il conformista (1970), Ultimo tango a Parigi (1972), Novecento (1976), L’ultimo imperatore (1987), The Dreamers (2003). Ma hanno trovato spazio anche analisi di chicche come La via del petrolio, documentario del 1967, Agonia, episodio del film Amore e Rabbia (1967) e Histoire d’eaux, episodio di Ten Minutes Older: The Cello (2002).
Uno degli elementi, che già fin dall’introduzione vengono sapientemente messi in evidenza, riguarda in primo luogo l’alta qualità visiva del cinema di Bernardo Bertolucci, cinema nel quale centri nevralgici sono le inquadrature che “sono da considerare come monadi e quindi degli oggetti autonomi”. Questo è un aspetto fondamentale sottolineato dall’autore del testo (che riporta, in tal senso, affermazioni proprio di Bertolucci), aspetto che fa emergere con chiarezza la natura del cinema intesa in primo luogo come arte visiva, pienamente visiva, prima che narrativa in senso romanzesco e letterario.
E ancor di più viene evidenziato come l’impianto registico-formale che ha caratterizzato la filmografia di Bertolucci risponda sempre a una ricerca incessante dal punto di vista stilistico, linguistico ed estetico. Scrive Spila: “ Da Prima della rivoluzione (1964) a Partner (1968) fino a The Dreamers e Io e te non c’è immagine di Bertolucci che non sia il frutto di un artificio espressivo, scenografico o luministico, che si accontenti di riproporre il vecchio equivoco della realtà così come è senza intervenire invece per trasformarla e sublimarla”.
Proprio quest’ultima riflessione mi sembra il cuore critico dell’intero libro. Spila individua perfettamente l’essenza della poetica visiva di Bertolucci che riassume, oltretutto, in un’altra frase emblematica quando, parlando di “verità” nei film di Bertolucci, dice: “…Guai ad accontentarsi del mediocre destino di “documentare” la realtà, meglio guardare oltre, lavorare sui confini più estremi: narrazione, avventura, invenzione, shock visivo, a volte scandalo”.
Ebbene, alla luce di queste affermazioni dell’autore del libro, l’analisi dell’intera avventura del regista di Strategia del ragno (1970) si palesa come un incredibile viaggio di ricerca poetico-linguistica, costantemente in evoluzione, dunque sempre viva e mai morta, come a volte capita di riscontrare nella parabola espressiva anche di importanti cineasti. E tale viaggio era spesso corroborato da riferimenti molto chiari come quelli che riguardavano la dimensione della rappresentazione degli spazi di Giorgio De Chirico, la visione surrealista e simbolica di René Magritte e il lacerante e doloroso espressionismo dei dipinti di Francis Bacon.
Inoltre, questo percorso tutto personale è stato sostenuto anche da incontri artistici fondamentali come quelli avuti, ad esempio, con il montatore Kim Arcalli e il direttore della fotografia Vittorio Storaro.
In definitiva, Il cinema di Bernardo Bertolucci racconta una storia artistica e umana, grazie a un solido impianto critico, cercando di evidenziare tutte quelle caratteristiche che hanno fatto del cinema di Bertolucci un’avventura esaltante, se non addirittura unica, a livello creativo. Un’avventura sempre all’insegna per “l’ossessione” della potenza delle immagini, queste ultime monadi che hanno accompagnato la sua vita “fino all’ultimo”, come è testimoniato con toccante semplicità nella fotografia pubblicata nel capitolo (più intimo) Le visioni di Bernardo, in cui si vede il grande cineasta seduto, pensoso, al tavolo del suo studio.
© CultFrame 07/2020
CREDITI
Titolo: Il cinema di Bernardo Bertolucci / Autore: Piero Spila / Editore: Gremese / Collana: CineAlbum / Curatore: Enrico Giacovelli / Pagine: 220 / Anno: 2020 / ISBN: 978-88-6692-086-1