Final account ⋅ Un film di Luke Holland ⋅ 77. Biennale Cinema di Venezia ⋅ Fuori Concorso.

SCRITTO DA
Claudio Panella

“I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere davvero pericolosi. Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e obbedire senza discutere”. Con questa citazione di Primo Levi – da un’appendice del 1976 a Se questo è un uomo – si apre significativamente il documentario Final account del regista inglese Luke Holland, che si chiude poi con un estratto di un noto discorso di Angela Merkel sulla “grande vergogna” che la Shoah rappresenta per il suo paese. All’inizio del film un’altra frase ne precisa l’oggetto principale: con le parole “colpevoli non si nasce, si diventa”, prende il via la prima parte del documentario, dedicata all’educazione all’antisemitismo e al culto della nazione della gioventù hitleriana.

Holland è una figura poco conosciuta in Italia a cui la 77a Mostra di Venezia ha tributato il giusto omaggio selezionando nel Fuori Concorso ufficiale questa sua ultima opera, presentata postuma, che corona una serie di ricerche sulla Shoah condotte nel corso di più decenni. L’autore è infatti scomparso nel giugno 2020, dopo una lunga malattia durante la quale ha montato una parte delle centinaia di interviste realizzate con alcuni degli ultimi testimoni dell’ascesa e della rovina del “terzo Reich”: membri delle SS, della Wehrmacht, civili residenti nei pressi d’uno dei molti campi di lavoro ed eliminazione nazisti sorti nell’Europa centro-orientale di ottant’anni fa o impiegati in quella macchina di morte.

Cresciuto tra l’Inghilterra e il Paraguay al seguito di una famiglia cosmopolita, il regista ha scoperto solo da adolescente che sua madre era scappata dall’Austria durante la seconda guerra mondiale per sfuggire alle persecuzioni contro gli ebrei in cui buona parte della sua famiglia fu sterminata. Avendo conservato e approfondito lo studio della lingua tedesca, Holland ha dedicato diversi documentari al recupero delle memorie di quell’epoca drammatica, come in particolare Good Morning Mr Hitler! (1993), co-diretto con Paul Yule, e I Was a Slave Labourer (1997) in cui si raccontava la campagna di Rudy Kennedy per far ottenere risarcimenti a chi aveva lavorato coattamente nei campi nazisti. Inoltre, è stato tra gli interpreti di Eden (2001) di Amos Gitai e Fabio Bonzi.

In Good Morning Mr Hitler! le smaglianti bobine a colori filmate dal cineamatore Hans Feierabend durante la Kultur-Fest di Monaco del 1939, poche settimane prima dell’invasione della Polonia, alla presenza del Fuhrer e di tutto lo stato maggiore nazista venivano mostrate ad alcune/i giovani che allora parteciparono al grande evento. Con quell’espediente, i testimoni venivano interrogati sulla consapevolezza degli orrori dell’ideologia hitleriana che avevano o non avevano a quel tempo e che vollero o non vollero elaborare dopo la fine della guerra. Lo stesso accade in Final account, in cui compaiono anche alcune sequenze del medesimo repertorio, e molto altro, dando voce a decine di coloro che del nazismo non furono vittime bensì complici.

Non ignorando le pratiche sperimentate nell’Italia fascista in campo educativo, già molto prima di concepire la “soluzione finale”, in Germania la macchina di propaganda antisemita prepara la Notte dei Cristalli (9-10 novembre 1938) a suon di canzonette sui coltelli da affilare per meglio conficcarli “nel ventre dell’ebreo”, abbecedari ridicolizzanti il popolo ebraico stampati dall’editore del Mein Kampf e diffusi in tutte le scuole, etc. Analogamente, l’addestramento militaresco dei giovani forma i corpi e gli spiriti alle guerre che verranno e li segna per la loro intera esistenza. Dalle molte interviste a tedeschi/e e austriaci/che nati/e negli anni Venti, emerge infatti chiaramente la difficoltà di un pentimento che significherebbe rinnegare interi decenni della propria vita. La ripetizione della verità, parziale o meno, di avere saputo solo in un secondo momento dei campi di sterminio proietta su molte dichiarazioni l’ombra di un’elaborazione psicologica e intellettuale mancata. E c’è anche chi, seduto in poltrona nel suo salotto buono o esibendo le onorificenze militari ricevute, afferma con orgoglio la sua appartenenza a una élite di eletti del Reich o nega esplicitamente le dimensioni della Shoah.

Tra le sequenze più intense del film, una delle poche a rompere l’alternanza di interviste, repertorio storico e brevi riprese dei luoghi della memoria dei campi, vi è l’incontro filmato nel 2011 fra un ex soldato nazista pentito e un gruppo di giovani alcuni dei quali dichiarano a gran voce di aderire ai disvalori razzisti e nazionalisti di quello che sembrerebbe in modo inappellabile un passato da non rimpiangere. E il film, pur avendo tra i protagonisti persone molto anziane interpellate tra il 2008 e il 2011 e oggi non più in vita, finisce quindi di interrogare direttamente la nostra contemporaneità, in Germania e non solo. Non mancano naturalmente gli intervistati che ammettono le colpe e la cecità dei loro vent’anni ma Holland, facendo propria la lezione di Lanzmann, riesce a mostrare anche le contraddizioni e i non detti di chi questa vergogna non arriva a farla propria sino in fondo.

L’archivio completo delle testimonianze raccolte dal regista è stato donato all’University College e alla Wiener Holocaust Library di Londra oltre che all’INA di Parigi.

© CultFrame 09/2020

TRAMA
Tra Germania e Austria, dopo la presa del potere di Hitler, centinaia di giovani e giovanissimi crescono indottrinati all’idolatria del Fuhrer e all’odio verso il popolo ebraico. I ricordi di queste persone, giunte alla terza età e oggi in gran parte decedute, sono testimonianze preziose da affiancare a quelle delle vittime della follia nazista.

CREDITI
Titolo: Final Account / Regia: Luke Holland / Montaggio: Stefan Ronowicz con Sam Pope e Barbara Zosel / Fotografia: Luke Holland / Musica: Liz Gallacher / Paese: UK, 2020 / Produttori: John Battsek, Luke Holland, Riete Oord / Distribuzione internazionale: Submarine Entertainment (US) / Durata: 90 minuti

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SUL WEB
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Claudio Panella

Claudio Panella, Dottore di ricerca in Letterature e Culture Comparate, si interessa in modo particolare alle interazioni tra la letteratura e le arti, alle trasfigurazioni letterarie del paesaggio e della città, alle rappresentazioni del lavoro industriale e post-industriale nella letteratura italiana ed europea. Attualmente è redattore di Punto di Svista - Arti Visive in Italia e CultFrame - Arti Visive.

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