Parlare di paesaggio e, nello specifico, di paesaggio in fotografia è sempre un’impresa piuttosto impegnativa; presuppone la messa in discussione di una serie di elementi già di per sé estremamente complessi. In primo luogo lo spazio e “lo spazio non è semplice”, come ci ricorda Robert Adams in La bellezza in fotografia. In secondo luogo il tempo che risulta sempre difficile da gestire in fotografia, anche senza volersi addentrare in questioni filosofiche. Inoltre non si può tralasciare la centralità del punto di vista, il quale determina, di fatto, la costruzione di quanto osservato e che, mutando continuamente, trasforma il paesaggio stesso instaurandovi un dialogo sempre in evoluzione, mai statico. E certamente il mezzo fotografico non semplifica le cose, laddove si vogliano far interagire tra loro questi elementi: ha per sua natura dei limiti che rendono difficoltosa, talvolta impossibile, la resa del tempo e la costruzione dello spazio. Quello che una fotografia restituisce è solo una rappresentazione di ciò che i sensi percepiscono, un’immagine ferma e piana, di contro al movimento, alla tridimensionalità e a un insieme di sentimenti che scaturiscono dall’esperienza di chi attraversa i luoghi e li osserva.
C’è un modo per tentare di risolvere la questione? Non credo che si possa dare una risposta univoca, ma ammesso che ci si volesse provare, non è sicuramente questa la sede più idonea. Quello che qui interessa è piuttosto trovare in questi interrogativi degli spunti di riflessione sull’argomento, che aprano verso nuove e diverse considerazioni e non si chiudano in presunte certezze.
In tale direzione ho trovato di grande utilità risfogliare il libro edito da Silvana Editoriale dal titolo Luigi Erba. Opere 1969-2015. Uno scatto dopo, che racchiude gran parte del percorso creativo dell’artista lecchese, raccogliendo lavori che appartengono alle prime esperienze fotografiche fino ad arrivare a quelli più recenti.
Il lavoro di Luigi Erba è da sempre improntato alla sperimentazione e alla ricerca del vedere attraverso la fotografia. Tra le molte opere visibili anche sul suo sito personale, quelle che mi hanno spinto ad aprire queste considerazioni appartengono alla serie Paesaggio ed Ex Paesaggio, un insieme di immagini dedicate agli antichi stabilimenti industriali disseminati nella provincia di Lecco, territorio privilegiato nell’indagine conoscitiva dell’autore, nelle quali tuttavia egli non si limita a una documentazione seriale delle fabbriche, fine a se stessa, ma va oltre, scava nella memoria collettiva degli abitanti, evoca le luci, gli odori, i rumori che fanno parte di un passato comune in quelle zone e lo restituisce anche a chi in quelle zone non abita.
Ma al di là dell’impatto estetico di quanto rappresentato, da cui ovviamente non si può trascendere, un aspetto che mi ha particolarmente colpito è la contrapposizione temporale a cui alludono le didascalie delle immagini: Paesaggio #7, Bellano 2007/2013, Ex Paesaggio #5, Lecco 2005/2012, solo per fare un paio di esempi. La distinzione tra un’immagine e l’altra non si riferisce al momento dello scatto, comunque indicato con la prima delle due date, ma all’atto di stampa, che fissa la seconda data: paesaggi sono quelli rimasti, ex paesaggi quelli che nel frattempo sono scomparsi. In questo modo l’autore affronta la delicata questione dello scorrere del tempo. D’altronde il tempo è sempre stato un elemento centrale nella ricerca di Luigi Erba, così come altrettanto centrali sono stati, e lo sono tuttora, l’indagine delle potenzialità e dei limiti del medium utilizzato e il tentativo di sfondare tali limiti, talvolta di negarli, per trovare altre possibili visioni.
È infatti evidente nelle immagini di questa serie, così come in altri lavori, il forte interesse per la manipolazione del materiale, sia in fase di ripresa (doppie esposizioni su pellicola con macchina Olga o Rollej 6×6), sia in fase di digitalizzazione, sia in fase di stampa (si tratta per lo più di stampa a contatto di negativi analogici dove, in molti casi, diventa materia visiva anche la linea nera di demarcazione tra gli scatti).
Le scelte tecniche diventano pertanto fondamentali, sono esse stesse elementi del linguaggio e presuppongono non solo una conoscenza minuziosa degli strumenti usati, ma anche delle evoluzioni che il passaggio dall’analogico al digitale ha determinato così da riuscire a mischiare sapientemente entrambi i processi in una contaminazione che, per molti versi, diventa la sua cifra stilistica distintiva. Anche nella serie denominata Costruzione di un paesaggio ritorna l’importanza della manipolazione come operazione necessaria per rinsaldare il dialogo tra spazio e tempo, tra passato e presente. Le operazioni di postproduzione hanno modellato e trasformato la materia visiva esistente in una nuova immagine, come il caso di Costruzione di un paesaggio #2, Neguggio (Lecco) 1987/2007, che di fatto è una rilettura digitale di un lavoro a collage precedente, dal titolo Sequenza temporale inserito nel ciclo Il tempo e l’immagine. Il catalogo della memoria.
In questa serie è evidente anche un altro significativo spunto di riflessione, ovvero l’importanza che l’autore, nel suo percorso di ricerca, dà al segno. Gli elementi che costituiscono il paesaggio, come il tralcio di vite dell’esempio riportato, perdono la loro connotazione realistica per essere trasposti in segni e diventare altro.
L’opera pertanto non si esaurisce nello scatto: questo è solo il momento iniziale di conoscenza, successivamente, anche a distanza di molto tempo, avviene una presa di coscienza dell’esperienza fatta in passato che determina la realizzazione dell’immagine. È un dialogo serrato e continuo tra spazio e tempo, che non costituisce mai un finale definitivo.
D’altra parte il pensiero dell’autore riguardo alla rappresentazione fotografica è estremamente preciso. Nel volume Luigi Erba. Camera chiara, camera oscura a cura di Fabio Castelli (2008) si legge:
“Per rappresentare le cose sono necessarie la linea e il limite, così le possiamo catalogare, riconoscere, certificare. La fotografia può comporre un inventario, ma l’immagine inizia là quando subentrano il provvisorio e la fragilità della magia di uno spazio, anche materialmente denso. Sempre instabile e trasparente”.
E proprio il senso di instabilità e di provvisorio si ritrova nella serie Paesaggio dissolto, dove la riflessione è incentrata sul concetto di sparizione, che per l’autore non è tanto una perdita, bensì una sorta di evanescenza che il paesaggio subisce, mantenendo tuttavia una materia primaria che potrebbe coinvolgere vista, udito, olfatto. Per usare le sue parole, “paesaggi dissolti, ma non perduti perché presenti fisiologicamente nella memoria”.
Nello scorrere questi lavori ciò che risulta particolarmente interessante è il concetto di relatività che emerge dall’opera di Erba nel suo complesso, la messa in discussione della fotografia intesa troppo spesso uno strumento di mera documentazione della realtà, lasciando piuttosto al fruitore degli interrogativi che stimolino una riflessione più ampia, che vada oltre ciò che si vede nell’immagine.
D’altra parte, andando a scomodare una figura di riferimento imprescindibile per chi si occupa di arti visive, Andrej Tarkovskij nel volume La forma dell’anima, “Lo scopo dell’arte non è quello di insegnare a vivere. L’arte non ha mai risolto i problemi, semmai li ha posti”.
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