Nelle due principali sezioni competitive della Mostra 2020 sono tornati al Lido gli autori più riconosciuti del cosiddetto ‘cinema del reale’ italiano che ha avuto tanti riconoscimenti nello scorso decennio. Gianfranco Rosi, già Leone d’oro con Sacro GRA (2013) e Orso d’Oro a Berlino con Fuocoammare (2016), ha infatti presentato in Concorso a Venezia 77 il suo Notturno. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, dopo l’esperienza della selezione maggiore per Spira Mirabilis (2016), hanno portato in Orizzonti il loro Guerra e pace. Entrambi questi nuovi film ripropongono inalterati – benché aggiornati – lo stile visuale e l’approccio etico peculiari dei rispettivi registi.
Per quel che concerne la coppia collaudata D’Anolfi/Parenti, le continuità tra opere quali I promessi sposi (2007), Grandi Speranze (2009), Il castello (2011) e Guerra e pace non riguardano soltanto i titoli letterari ma la prosecuzione di un discorso coerente sugli esseri umani al lavoro e sulla produzione e lo statuto delle immagini stesse. Ritrovando la ‘giusta distanza’ e anche l’umorismo dei primi film insieme all’attenzione alla struttura e alla divisione in capitoli di altre opere recenti, il loro ultimo lungometraggio è suddiviso in quattro parti che i titoli inscrivono in una cronologia progressiva delle relazioni ultracentenarie tra cinema e guerra (Capitolo 1: Passato remoto. Libia 1911. La guerra incontra il cinema; Capitolo 2: Passato prossimo. Le visioni si moltiplicano; Capitolo 3: Presente. Il mestiere delle immagini; Capitolo 4. Futuro. Dove tutto è già scritto).
Il film si apre con gli archivisti dell’Istituto Luce al lavoro e con le pellicole di Luca Comerio e altri operatori che documentarono in modo puntuale l’occupazione italiana delle terre libiche. Una ripresa di barconi ricolmi di militari italiani pronti a sbarcare, riavvolgendo la pellicola, rinvia in modo ancora più emblematico alle immagini contemporanee delle imbarcazioni che partono verso la nostra penisola proprio dalle coste libiche. Nei depositi d’archivio si torna in chiusura, con l’Archivio della Croce rossa internazionale e la Cinémateque Suisse, mentre le parti centrali dell’opera esplorano due realtà nella quali le immagini dal fronte sono nevralgiche: prima l’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri italiano, attraversata giorno e notte dal flusso continuo di telegiornali, camere live, streaming web da tutto il mondo, e in cui analisti creano senza interruzione mappe e raffigurazioni digitali delle varie zone a rischio dov’è segnalata la presenza di cittadini italiani (Libia, Somalia ed Eritrea, Siria, ma anche le città d’Europa colpite da attentati); poi l’École des métiers de l’image del Ministero francese della Difesa che nella sua sede di Ivry-sur-Seine forma militari specialisti in tecniche audiovisive, realizzatori e conservatori di immagini a scopo strategico e documentario.
Senza ricorrere a didascalie o a interviste frontali – analogamente a Rosi – ma dando ampio spazio all’ascolto e al pedinamento delle persone che vivono e lavorano in questi vari contesti, D’Anolfi e Parenti ci mostrano ‘realtà’ che altrimenti non avremmo mai potuto vedere: la Farnesina con le sue ritualità (l’aggiornamento e la manutenzione delle bandiere) e pratiche di trattamento delle emergenze internazionali; l’Ecpad, forse il più antico archivio d’immagini di guerra del mondo, nei cui pressi, oltre alla scuola per operatori, si svolgono anche gli addestramenti della Legione straniera. Ulteriore continuità nel cinema dei due è la scelta di far rielaborare e rieseguire al loro abituale musicista Massimo Mariani le colonne sonore di alcuni loro documentari precedenti.
Notturno è stato invece girato da Rosi nel corso di tre anni sui confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano. L’autore di Fuocoammare (2016) filma anche in questo caso la vita quotidiana che si svolge intorno agli eventi drammatici che la condizionano: lì gli sbarchi a Lampedusa tenuti fuori campo per buona parte del film, qui la guerra e la guerriglia senza fine lungo un’estesa regione di frontiere contese. Pur essendo girato – a differenza di Guerra e pace – nelle autentiche lo fa senza mostrarci praticamente mai (se non mediate dalla visione altrui) immagini del fronte, che si intravedono soltanto su qualche schermo o, tragicamente, nelle parole e nei disegni di un gruppo di bambini in fuga dall’Isis e nelle continue evocazioni sonore di spari e scoppi, che si pretendono diegetiche.
Ciò che contraddistingue Notturno è senz’altro la sua veste visivamente sontuosa, con diverse scene dalla bellezza quasi pittorica e dalla composizione impeccabile, che sin dalle prime proiezioni alla Mostra di Venezia si è attirata le vibranti reprimende morali di chi ne contesta il fondamento etico richiamandosi alle note critiche di Rivette sul famigerato carrello di Kapò di Pontecorvo. Inoltre, Rosi si autoriferisce in modo marcato al suo film precedente per mezzo del personaggio di un ragazzino pescatore e cacciatore che non può non ricordare quel Samuele che era uno dei protagonisti principali di Fuocoammare. Alcune delle sequenze che lo riguardano sembrano messe in scena, così come l’inquadratura finale in primo piano che gli è dedicata, un po’ artefatta nella sua ricerca di essere emblematica. Persino una delle scene più forti del film, i racconti di guerra dei bambini incalzati a parlare dalla loro maestra (evidentemente a beneficio della camera di Rosi e di malavoglia) appare una forzatura, non necessaria data la possibilità di filmarne i disegni. Al punto che un’altra rappresentazione indiretta dei conflitti armati che hanno tormentato intere generazioni di mediorientali – lo spettacolo teatrale messo in scena dai degenti di un ospedale psichiatrico sul retorico testo di un loro dottore – potrebbe sembrare una chiave di lettura del rapporto tra il regista e le persone da lui incontrate nei suoi viaggi e divenute suoi personaggi, quasi un disvelarsi del dispositivo per l’appunto retorico e ‘scenico’ che Rosi allestisce in ogni sua opera. E questo svelamento può sì spaesare e urtare, anche da un punto di vista etico.
Naturalmente, la ‘realtà’ messa in scena può contenere ‘verità’ e nell’ultimo decennio il ‘cinema del reale’ italiano si è affermato proprio rivendicando una postura diversa sia da quella del documentario classico sia da quella del film a soggetto o a tesi. E in particolare Rosi non ha mai fatto mistero di quale fosse la propria distanza dal documentario e quindi, inevitabilmente, imponendo il suo universo estetico e poetico su tutti coloro e tutto quanto viene inquadrato dalla sua camera. Dal canto loro, a D’Anolfi e Parenti bisogna riconoscere di riuscire a condurre, sempre senza didascalismi, un discorso storico e teorico sulle immagini stesse che riescono a tenere insieme grazie a un metodo di lavoro affinato di film in film di cui la relazione con le persone filmate è parte integrante.
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