In una celebre pagina del suo “taccuino industriale” La linea gotica (1962), Ottiero Ottieri affermava: “Troppi oggi si augurano il romanzo di fabbrica, ecc., e troppo pochi sono disposti a riconoscere le difficoltà pratiche (teoriche) che si oppongono alla sua realizzazione. L’operaio, l’impiegato, il dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno, o, per caso, entrano, e allora non dicono più”. Se dunque la difficoltà di avere accesso a molti luoghi di lavoro e raccontarli con cognizione di causa valeva (e vale) per la letteratura, tale aspetto è ancor più nevralgico per il cinema – d’altronde Ottieri includeva anche i registi nel suo elenco – che per mostrare un luogo deve essere ammesso a filmarlo. Cosa che nella storia del cinema documentario e militante è spesso stata tutt’altro che semplice per quelle “difficoltà pratiche”, e politiche, che evocava lo stesso Ottieri.
È tenendo ben presente tali riflessioni che ci si può accostare alla sezione competitiva “Corpo de Trabalho/Body of Work” che si aggiunge quest’anno al 18° Doclisboa. Dopo dieci anni di collaborazione con il DOK Leipzig, lo storico festival di Lipsia a lungo curato dalla finlandese Leena Pasanen neo-direttrice del Biografilm di Bologna, la European Agency for Safety and Health at Work (EU-OSHA) ha stretto dal 2020 una partnership con il Doclisboa proponendosi di assegnare l’Healthy Workplaces Film Award a un’opera dedicata al mondo del lavoro contemporaneo tra le dieci selezionate in un programma apposito. A tale novità è seguita quella di un ex aequo. I film premiati che verranno distribuiti con sottotitoli, forniti dall’agenzia, in varie lingue europee sono infatti due documentari alquanto diversi tra loro anche se accomunati dalla nazionalità tedesca e dal fatto che chi li ha diretti ha condiviso la stessa scuola di cinema a Monaco: si tratta di Regeln am Band,bei hoher Geschwindigkeit (Rules of the Assembly Line, at High Speed) di Yulia Lokshina (già vincitore del Filmfestival Max Ophüls Preis 2020) e Automotive di Jonas Held (già presentato alla 70ª Berlinale).
La questione del filmare o meno un luogo di lavoro dal di dentro appare centrale nella rosa di questa selezione vista a Lisbona, a partire dalla coppia di vincitori. Yulia Lokshina racconta nel suo film diversi punti di vista di residenti in Renania che hanno in qualche modo a che fare con l’ingombrante presenza di un enorme macello della Tönnies, assurto alle cronache per i focolai di Coronavirus che vi sono scoppiati nei mesi scorsi. In questo sito vengono uccisi 26000 maiali al giorno e sono impiegati numerosi lavoratori provenienti dall’Europa dell’Est con poche tutele salariali e scarse misure di sicurezza a proteggerli. Dopo averci mostrato tre suini nell’incipit del film, Lokshina non riprende le lavorazioni e l’interno dello stabilimento ma ne perimetra l’esterno seguendo in particolare assistenti sociali che si battono per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori immigrati in Germania e un gruppo di liceali che mette in scena Santa Giovanna dei Macelli di Bertolt Brecht ragionando sul testo e sulla disumanità del capitalismo. Un limite invalicabile si è quindi tramutato in questo caso in uno stimolo ad allargare lo spettro dell’inchiesta andando incontro a comunità altre ma solidali rispetto a quella dei lavoratori.
Invece, Jonas Held in Automotive ha potuto seguire con la sua camera la routine quotidiana di due dipendenti del colosso Audi sia durante sia dopo il lavoro: Seda è un’operaia entusiasta del suo impiego in fabbrica, ma ha un contratto a termine che nel corso del film non viene rinnovato a causa della crisi in cui la grande azienda tedesca versa dopo lo scandalo delle emissioni contraffatte dei suoi autoveicoli; Eva è una ‘cacciatrice di teste’ che conosce bene i codici del mercato delle risorse umane e cerca di usarli a vantaggio della sua professione, ma anche il suo lavoro potrebbe essere affidato a un algoritmo nella prossima grande automazione di ogni comparto produttivo. Per entrambe, raccontarsi significa fare emergere anche le contraddizioni del loro legame con l’azienda e con l’induzione alla flessibilità totale che essa impone.
Tra i film più interessanti del programma si segnala Le Kiosque di Alexandra Pianelli, ultima rappresentante di una famiglia che ha gestito per decenni un chiosco di giornali in Place Victor Hugo a Parigi: il chiosco stesso si tramuta tanto in un teatrino – la regista ha infatti studiato belle arti prima di tornare all’edicola per dare una mano alla madre… e realizzare questo film – quanto in una camera con l’obiettivo rivolto alla strada e alla comunità di clienti affezionati e occasionali che il film inquadra. Spazio di lavoro angusto e sconosciuto ai più, il chiosco deve sottostare alle leggi di un mercato in crisi quale quello dell’editoria e della pubblicità da cui dipende. Il documentario si tramuta quindi presto in un requiem.
Analogamente, in El trabajo o a quién le pertenece el mundo (Work or to Whom Does the World Belong) Elisa Cepedal racconta con diversi materiali di repertorio – brani di Kuhle Wampe (1932) di Slatan Dudow, sul tema della disoccupazione nella Repubblica di Weimar, giustapposti a video di manifestazioni e lotte operaie di fine Novecento – l’inesorabile crepuscolo delle miniere asturiane, regione nel nord della Spagna di cui la regista è originaria. L’autrice ha scelto però di mantenere una netta distanza retorica dalla materia narrata con una stentorea voce off che riepiloga le varie fasi di una lunga cronistoria in cui l’attività estrattiva, oggi abbandonata, ha plasmato l’identità e la coscienza politica di generazioni di minatori.
Meno intensi e rigorosi nel loro dispositivo formale, ma rivolti a realtà altrettanto interessanti, sono invece apparsi The Disrupted di Sarah Colt, con protagonisti tre diversi lavoratori (un agricoltore, un’autista di Uber, un ragazzo che vorrebbe farsi imprenditore) in tre diversi stati americani (Florida, Kansas, Ohio) che cercano di rialzarsi dalle crisi provocate dalle corporation e dai crack finanziari che hanno agitato il nuovo millennio, e Underground di Jeong-keun Kim, che segue l’apprendistato di alcuni giovani manutentori che verranno presto collocati nel sistema di trasporti della Corea del Sud mentre macchinisti e donne delle pulizie (rigida è la divisione sessuale del lavoro in tale ambito) rischiano il loro posto a causa dell’automazione e del sistema di sub-appalti. Un’ultima segnalazione va a Merry Christmas, Yiwu di Mladen Kovacevic, che ci porta all’interno di una fabbrica di addobbi natalizi cinesi che deve star dietro a una richiesta mondiale di oggetti a bassissimo costo.
Se la rassegna lisbonese è stata accompagnata da un programma di film del passato e da un meeting on line con alcuni dei registi premiati e invitati dal titolo Thinking Labour Practices Through Film, già a inizio ottobre si era tenuta sul web l’interessante tavola rotonda Working Europe. New Trends in Labour Films organizzata dal Working Title Film Festival di Vicenza insieme ai direttori dell’Arbetar Filmfestivalen/Nordic Labour Film Festival (con base a Malmö, nato nel 2017 da un collettivo svedese di filmmakers e attivisti, sostenuto da sindacati e associazioni che ne fanno una piattaforma di distribuzione e dibattito sulle condizioni attuali del lavoro senza alcun concorso competitivo), del LAN. Festival audiovisual obrero (il cui titolo significa “lavoro” in Basco e si svolge a Bilbao, cercando di preservare anche tramite tour oltre che con il cinema le memorie di una città industriale repentinamente riconvertitasi al turismo attratto dal Guggenheim Museum di Frank O. Gehry) e del Filmer le Travail (giunto all’11a edizione, svoltasi regolarmente a febbraio a Poitiers, con un focus sulle condizioni occupazionali delle donne e una sempre stretta collaborazione con ricercatori universitari e studenti, da un lato, e con France3 per la produzione di progetti realizzati in quella regione, dall’altro).
La pandemia globale e la necessità di usare Internet per proporre molte delle manifestazioni programmate quest’anno porteranno senz’altro a stringere nuove reti e a moltiplicare le formule ibride di progettazione e diffusione di quegli audiovisivi che nascono dal basso di realtà locali e militanti, ma con sempre maggiore consapevolezza nell’uso del mezzo cinematografico, e non soltanto di quelli sostenuti da produzioni o istituzioni internazionali.
© CultFrame 11/2020
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Il programma di Doclisboa ’20