Già nel 2013 il reportage narrativo Invisibile è la tua vera patria. Luoghi e vite dell’industria italiana che non c’è più (Il Saggiatore) di Giancarlo Liviano D’Arcangelo esplorava sette diversi siti industriali dismessi della penisola, stabilimenti, miniere e lunapark abbandonati ma ben presenti nel ricordo di molte generazioni. Come per esempio in quella dell’operaio Amedeo N., accecato da un incidente mezzo secolo fa ma ancora in grado di essere per l’autore una “insospettabile guida onnisciente” alla storia dell’ex Italsider poi Ilva di Taranto, incarnando le tante ferite inflitte dalla fabbrica a chi ci lavorato.
Nel 2014 il dizionario Treccani ha accolto il termine “abbandonologo”, diffuso in Italia grazie alle opere di appassionati quali Carmen Pellegrino, la cui definizione è: “Chi perlustra il territorio alla ricerca di borghi abbandonati, edifici pubblici e privati in rovina, strutture e attività dismesse (luna park, orti, giardini, stazioni, ecc.), di cui documentare l’esistenza e studiare la storia”. Negli ultimi anni si sono effettivamente moltiplicati fotografi e scrittori che prima di – eventualmente – pubblicare in volume utilizzano social network e blog per raccontare quelle particolari tipologie di rovine da cui siamo circondati che prendono il nome di “archeologia industriale” o che stanno scivolando verso tale categoria a causa di una cessazione recente di attività. Per non lasciarle scomparire nell’oblio che spesso si riserva a ciò che non è più fungibile, e che in certi casi suscita ricordi dolorosi, le memorie di questi luoghi vengono raccolte sia da studiosi sia anche da artisti come, per fare anche qui almeno un esempio, il fotografo Matthew Emmett con il progetto Forgotten Heritage. E molti altri se ne potrebbero citare. Compreso chi, come Franco Arminio – poeta che si definisce “paesologo” specialista di paesi fantasmi – recita versi non richiesti in varie regioni italiane e in una delle scene della serie Nuovo cinema paralitico presentata al 38° TFF da Davide Ferrario scandisce: “Dio non è morto. Dio ci ha licenziato. La poesia lavora per farci riassumere. La poesia è il nostro sindacato”.
Nel pulviscolo di questa variegata galassia si può ritrovare anche il barese Fabrizio Bellomo, che scompagina già da un po’ con i suoi interventi realizzati in vari paesi europei tanto gli stilemi dell’“abbandonologia” quanto quelli del mondo dell’arte da cui proviene. Coniugando ricerca e critica sociale, Bellomo si è infatti rivolto ad alcuni luoghi ben determinati per farne terreno di studio dei processi di ridefinizione dell’economia neoliberale e più precisamente del passaggio dal mondo del lavoro fordista a quello digitale contemporaneo. Processi e passaggio che riguardano anche il mondo dell’arte e il cinema stesso.
Presentato al 38° Torino Film Festival, nelle cui varie sezioni il declino post-industriale di territori sfruttati a fondo nel secolo scorso si incontrava in diverse opere (come il vincitore del concorso internazionale documentari The last hillbilly e il lungo di finzione targato Sundance The Evening Hour di Braden King, ambientati in due zone ex-minerarie di Kentucky e West Virginia), il video-saggio – sui generis – di Bellomo intitolato tautologicamente Film è una sorta di auto-antologia che può servire innanzi tutto da prospetto di almeno un decennio di suoi lavori, utile a chi già non lo conosca.
Costruito in cinque distinti capitoli, Film si apre e si chiude come un “desktop-movie” dove su un foglio di testo l’autore digita i titoli delle varie parti dell’opera, composte a loro volta di frammenti visivi e sonori realizzati come documentazione delle sue ispezioni e installazioni artistiche: a Sesto San Giovanni (l’ex Stalingrado d’Italia, dove il carroponte dell’ex Breda Marelli è stato trasformato in area concerti) Bellomo ha affisso nel 2012 la gigantografia di una targa trovata in un’acciaieria pugliese con la scritta “Abbi cura della macchina su cui lavori. È il tuo pane!”, un’immagine presto diventata virale che ha suscitato in rete commenti quali il lucido “Dopo averlo letto passando in macchina, ho fatto pulizia sul PC del lavoro. E gli ho dato un bacino”, che giustifica la manipolazione della scritta in “Abbi cura del mac su cui lavori. È il tuo pane!”; a Lumezzane (la “città-officina” in provincia di Brescia dove il culto del lavoro ha ancora i suoi adepti), Bellomo ha realizzato nel 2017 un progetto di arte pubblica dal titolo Espansa che consisteva nel disseminare per le vie della cittadina targhe con messaggi rivolti agli operai dal tenore anche più paternalistico di quello su citato col risultato di scatenare un’interrogazione da parte leghista e un acceso dibattito in consiglio comunale, riproposto in Film nella sua diffusione in streaming tutt’altro che ad alta qualità aggiungendo una nuova stratificazione all’eterogeneità enunciativa e visiva del documentario; a Tirana, per la Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo, l’artista aveva invece filmato la rotonda detta “dogana”, dove i lavoratori in cerca di impiego si presentano con i propri strumenti agli automobilisti tra cui potrebbe esserci chi li assume anche solo per poche ore o a giornata, e aveva chiesto a un operaio munito di martello pneumatico di incidere su di una parete la scritta “vegla ben ustain”, vale a dire “lo strumento fa il maestro”.
A rafforzare il concetto di una “fabbrica diffusa” che colonizza ogni spazio quotidiano anche nell’attuale contesto di apparente de-industrializzazione occidentale, il secondo capitolo del lungometraggio mostra un opificio di “amanuensi” digitali chini sui loro quaderni a ricopiare, pixel dopo pixel, codici utili alla dematerializzazione e riproduzione di immagini fotografiche. Come a dire che la tecnologia non sempre rende liberi e la cosmesi del capitalismo digitale nasconde a stento le nuove forme di schiavitù che produce.
Nell’ultima parte di questo Film che si dice “non scritto, non diretto e forse interpretato da Fabrizio Bellomo”, vediamo l’autore farsi intervistare da una televisione serba a Kragujevac, dove ha sede uno stabilimento della FCA (Fiat) che produce tutte le 500 L in commercio. Un altro modo di inseguire il lavoro e la sua ideologia anche nei media, come dimostra la composizione stessa di questo originale documentario che si sviluppa esplorando tanto i luoghi abbandonati dell’industria fordista quanto il web, tanto rileggendo Marx e Debord o rivedendo La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, quanto scrollando commenti di Facebook. Produzione, riproduzione e montaggio: mutando luoghi e prodotti non sempre cambia la catena che tutti ci tiene.
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