Uno spazio geometrico ampio e ordinato, rigoroso e pieno (di vuoti), attraversato da una luce calda e diffusa; uno spazio visuale che guida lo sguardo dell’individuo dentro un labirinto costituito, in verità, da luoghi totalmente aperti. L’equilibrio formale è tutto in questo spazio, ma la forma non è solo manifestazione di una concezione razionale del pensiero moderno, è apertura verso l’indefinibile, il mistero, l’altro.
Lo spazio di cui sto parlando è quello della capitale federale brasiliana: Brasilia. Una città nata dal nulla e sul nulla nella seconda metà degli anni Cinquanta, un luogo dell’anima (intesa come territorio interiore) che ha una dimensione chiaramente metafisica. A orchestrare questo capolavoro dell’architettura urbanistica moderna è stato Oscar Niemeyer, architetto brasiliano tra i maggiori del XX secolo, a livello mondiale.
Brasilia è una scenografia vivente surreale e trascendente, è il palcoscenico di un teatro della vita che risponde a una dimensione esistenziale astratta, visionaria, fuori (paradossalmente) dal mondo. Riesce a delineare perfettamente lo spirito della città il cineasta israeliano, formatosi nel Stati Uniti d’America, Yoni Goldstein, il quale nel film A Machine to Live In, con la co-regia di Meredith Zielke, edifica un sistema di immagini all’insegna dell’evocazione, della rarefazione.
Goldstein rende Brasilia una città del sogno, una struttura onirica, un flusso di pensiero senza meta. L’idea di metropoli viene trasformata da Goldstein in territorio dell’immaginazione visionaria, territorio in cui il dominio dell’organismo urbanistico sull’essere umano è evidente. Non però perché, come accade per altre città famose (New York, Roma, Parigi), chi la guarda sia vittima di preesistenze, quanto piuttosto perché la capitale brasiliana è in grado di trasportare la pratica percettiva dell’individuo in una dimensione estetica e formale dai tratti filosofico-poetici, addirittura sacri.
Come ben sottolineato da Goldstein, Brasilia stimola profondamente lo sviluppo di un pensiero e di una pratica esistenziale fuori dal comune, totalmente altra rispetto alla realtà quotidiana di ogni metropoli del mondo contemporaneo. Ecco, dunque, il proliferare di gruppi religiosi che praticano credenze sincretiche (tra cristianesimo, ebraismo ed entità extra/ultra-terrestri), l’idea visionaria della massoneria e comunità che si esprimono nella utopica (e mai morta) lingua universale dell’Esperanto.
Goldstein con elegante sapienza documentaria insiste parecchio su quest’ultimo aspetto, ovvero l’idea che una società moderna e tendente al futuro si potesse esprimere compiutamente nell’idioma creato da Ludwik Lejzer Zamenhof, linguista (nonché medico) polacco di origine ebraica che creò questo meraviglioso sogno linguistico e che codificò anche la grammatica dello Yiddish, la lingua parlata dalle comunità ebraiche centro-orientali dell’Europa. Brasilia e l’Esperanto, di fatto, sono una cosa sola, sono un’idea complessa ma anche chiarissima, rappresentano un unico concetto formale e linguistico compatto relativo a un mondo che si evolve verso il nuovo, sempre e comunque. E Brasilia rientra anche nelle elucubrazioni intellettuali della grande scrittrice brasiliana, anch’essa di famiglia ebraica, Clarice Lispector che evidentemente comprese il valore profondo della creazione e dell’esistenza di questa città unica la mondo.
La regia di Yoni Goldstein è sempre oscillante tra il realismo “magico” e la sfera onirica. Il regista inquadra con precisione la città, descrivendo lo spazio urbano con equilibrio e rispetto della struttura della capitale brasiliana, ma nelle sue immagini c’è sempre spazio per una fuga verso una vibrante deriva visionaria che non ha mai cedimenti anche quando sembra che uno spirito documentarista più tradizionale possa prendere il sopravvento. Ciò non avviene mai e così il regista decide di chiudere la sua personale rappresentazione del paesaggio urbano di Brasilia, stilizzando graficamente la città e realizzando una sorta di fuga dello sguardo in grado di ridurre la metropoli in segni e linee, linee di luce sempre più precise e sempre più lontane, fino al buio, all’abisso della percezione. Verso il nulla e il mistero da cui proviene.
© CultFame 11/2020
CREDITI
Titolo: A Machine to Live In / Regia: Yoni Goldstein, Meredith Zielke / Sceneggiatura: Yoni Goldstein, Sebastian Alvarez / Fotografia: Andrew Benz / Montaggio: Iva Radivojevie, Stefan Oliveira-Pita / Suono: Julian Flavin / Produzione: Mass Ornament Films, Benz Digital
SUL WEB
Filmografia di Yoni Goldstein
Filmografia di Meredith Zielke
Torino Film Festival – Il sito