L’ultimo suo film uscito in Italia è stato Il prigioniero coreano (2016), presentato a Venezia, il festival dove L’isola (2000) lo aveva fatto notare dai cinefili di mezzo mondo. L’ultimo incontro con chi scrive risale alla prima del fanta-distopico Inkan, gongkan, sikan grigo inkan (Human, Space, Time and Human) durante la Berlinale 2018. Avrebbe compiuto sessant’anni il prossimo 20 dicembre, Kim Ki-duk (pronuncia Kim Ki-dòk) e la notizia della sua morte avvenuta in Lettonia per complicazioni legate al Covid, mentre stava lavorando a un nuovo progetto, ne certifica il profilo di autore errabondo e sempre in cerca di occasioni per riformulare i codici del suo stesso cinema. Durante questi lunghi mesi di lockdown l’avremmo immaginato solo e recluso come in Arirang (2011), film-documento di un lungo periodo di silenzio e crisi artistica a cui sono seguiti il ritorno al cinema di finzione con Amen (2011) e il Leone d’Oro a Venezia Pietà (2012). E invece, imprevedibile com’era, stava dando forma a un’opera a noi misteriosa e che tale rimarrà.
Nel 2005 una rassegna itinerante delle sue opere organizzata dal Korean Film Fest di Firenze lo aveva portato anche a Torino permettendoci di incontrarlo con più calma che nelle sincopate conferenze stampa festivaliere. A quell’altezza, dopo il buon successo di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003), Kim era forse all’apice della sua notorietà europea avendo vinto l’anno precedente l’Orso d’oro per la miglior regia a Berlino con La samaritana e il Leone d’argento per la miglior regia alla 61a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia con Ferro 3. La casa vuota, uno dei suoi film più amati.
Nella prima risposta dell’intervista realizzata in quella circostanza, il regista approdato al cinema solo dopo essere stato per cinque anni sottufficiale dell’esercito del suo paese, e per due “seminarista” in un tempio riservato ai non vedenti, ricorda il biennio trascorso a Parigi da studente di belle arti e artista squattrinato. Nella seconda sembra proprio prefigurare Arirang.
Come è approdato a Parigi e che rapporto ha oggi con l’Europa?
A Parigi sono arrivato per imparare a dipingere e ho finito per imparare come si fa un film. Recentemente ho ricevuto diversi riconoscimenti in Europa e penso che questo sia dovuto al fatto che i miei film sono vicini anche ai sentimenti degli europei. Negli anni Novanta, sono arrivato in questo continente e per un anno intero ho viaggiato visitando diversi paesi: la Francia, l’Italia, la Grecia. Da ognuno di questi luoghi ho tratto molti spunti. La maggior parte dei registi coreani rimane nel proprio paese, mentre io ho voluto viaggiare e vedere come vivono le persone in Europa e questo mi ha influenzato e differenzia i miei film rispetto a quelli dei miei connazionali. Questi ultimi si concentrano maggiormente sulle storie, mentre i miei lavori danno grande peso alle immagini. Ci sono dei registi bravi ora in Corea che rispetto ad un tempo subiscono meno l’influenza del cinema hollywoodiano e del pubblico affezionato a tale stile; molti cercano di esprimersi liberamente e forse alcuni di questi sono stati influenzati dal cinema europeo. Penso che in Europa le immagini funzionino più dei dialoghi ed è forse questa una delle ragioni per cui il mio lavoro piace tanto da voi. Naturalmente, questa è solo una mia opinione.
Come è avvenuto il passaggio da un’arte visiva a un’altra, dalla pittura al cinema?
È stato un passaggio naturale. La mia vita è cambiata e il cinema ha cambiato la mia vita. Ma il futuro potrebbe portare a ulteriori mutamenti. Ogni volta che ho delle idee mi metto subito al lavoro. Le idee e la vita si muovono e un giorno potrei anche smettere di essere un regista. Sicuramente però non smetterò di registrare certe scene di vita, che magari terrò per me.
Conosce il cinema italiano?
Uno dei film italiani che meglio conosco è L’albero degli zoccoli, dove ci sono scene che sembrano dipinti di Rembrandt e Rubens. Conosco anche alcuni film italiani più recenti, come La vita è bella di Roberto Benigni e La stanza del figlio di Nanni Moretti. So che l’esperienza del neorealismo è stata importante per tutta la storia del cinema ma non ne ho visto che degli episodi. Alcune immagini di altri autori come per esempio di Fellini e Pasolini mi sono rimaste sì impresse, ma non mi hanno influenzato.
Come si è evoluto il suo percorso cinematografico dai suoi primi film a oggi?
Oggi i miei film sono più morbidi di un tempo, cerco di non mostrare troppa crudeltà. Ritengo che per mettere in scena le ombre bisogna accrescere la presenza di luci. La disperazione è comunque un aspetto della vita quotidiana. L’esistenza umana è un alternarsi continuo di gioie e tristezze ma la maggior parte della nostra vita è fatta di momenti tristi.
Vincere premi internazionali o avere successo ai festival che impatto ha sulla carriera di un regista?
Apprezzo i riconoscimenti ma più si ricevono premi e più si rischia di impigrirsi. I miei primi film che non hanno ricevuto nessun premio sono anche quelli che mi piacciono di più. Voglio pensare al cinema lontano dai premi, che spesso sono riservati ai film più popolari, non necessariamente a quelli più belli. Mi piace essere apprezzato dalla critica e conosciuto nel mondo ma non mi sento tanto a mio agio a ricevere premi.
Cosa può dirci del suo prossimo film, che ha già completato?
Si intitola L’arco (Bow) ed è ambientato interamente su una barca, la terra è assente. Racconta la storia di un anziano egoista. L’arco del titolo è un simbolo: può essere sia un’arma per uccidere sia uno strumento musicale, e quindi sia il brutto che il bello.
Cos’è il cinema?
Il cinema è, sotto diversi aspetti, una forma di comunicazione, una forma di conversazione tra gli uomini. È il dialogo tra la soggettività e l’oggettività dentro di noi, tra l’autore e lo spettatore e infine tra spettatori. A questo proposito, ci tengo molto a ringraziare tutti gli spettatori italiani che amano tanto i miei film. Ferro 3 ha avuto più successo in Italia che in Corea. Non m’importa quanto pubblico paghi per vedere i miei film, ma il cinema può influenzare un individuo e cambiargli la vita, e spero che dopo aver visto un mio film si possa anche diventare un po’ più felici.
Intervista rilasciata da Kim Ki-duk a Torino il 16 aprile 2005
CultFrame 12/2020