Scompare all’età di sessant’anni una delle figure più interessanti del panorama cinematografico degli ultimi venticinque anni: il coerano Kim Ki-duk. Tra i suoi titoli più significativi: Ferro 3 e La Samaritana del 2004, Pietà del 2012, One on One del 2014. CultFrame lo ricorda con la scheda a lui dedicata per i Maestri del Cinema.
Kim Ki-duk. 20 Dicembre 1960 (Bonghwa, Corea del Sud) – 11 dicembre 2020 (Latvia)
Nel 2011 Kim Ki-duk si presenta al Festival di Cannes con il film Arirang, il cui titolo rimanda a una canzone tradizionale coreana di amore e disperazione. Si tratta di ciò che Kim Ki-duk ha filmato e montato della sua permanenza di tre anni in una baracca nel bosco, lontano dal resto, trascorsa a riflettere sul cinema e sulla vita a seguito di un incidente e un tradimento: sul set di Dream (2008), una delle sue attrici rischia di rimanere uccisa in una scena d’impiccagione; due suoi collaboratori stretti, uno dei quali si era presentato al regista qualche anno prima con il desiderio di imparare, lo abbandonano per entrare in produzioni cinematografiche più commerciali e redditizie. Kim Ki-duk vive nella baracca, dorme in una tenda, scioglie la neve in un pentolino per ottenere l’acqua calda con la quale prepararsi l’espresso. Ha i talloni screpolati dal freddo. Parla con un sé moltiplicato: riprodotto dal controcampo, dall’ombra dialogante, e dal regista che osserva il girato al computer. Il suo incarnato cinematografico vive in nuove forme all’interno di una precisa e complessa operazione riflessiva. Il fatto che
Kim Ki-duk decida di ‘dare il proprio corpo’, di fare del suo eremitaggio un film, ci parla già del suo cinema: l’istanza di narrazione si confronta, e si scontra, con l’istanza di vita. Durante Arirang, Kim Ki-duk ripete che ‘vuole fare un film’, ha la necessità vitale di farlo, nonostante la depressione, il turbamento seguito all’incidente; nonostante ‘i figli di puttana’. Arirang è la preghiera e l’espiazione. È la canzone urlata nel chiuso dell’abitacolo della macchina.
Dal 1996 al 2012, considerando la pausa-ritiro di tre anni, la realizzazione dei film, per Kim Ki-duk, ha avuto la forza propulsiva di un respiro. Scrittura, regia, montaggio. Nemmeno è finito un film che già scrive quello dopo. Una brevità ingannevole che è in realtà intero possesso dell’iter cognitivo e visivo dell’opera. Molto presto si è liberato anche delle ingerenze produttive esterne, per occuparsi interamente del processo creativo. Ancora, l’urgenza vitale si accompagna a quella artistica, e all’esigenza di quel riconoscimento che in patria gli è stato dapprima negato, per poi arrivare con una mera veste istituzionale. Le premiazioni europee sono state e sono, per lui, la possibilità di essere conosciuto, di essere visto in più parti del mondo.
Per scrivere di Kim Ki-duk è necessario un approccio diretto, non necessariamente cronologico alle opere, che possa evidenziare il rapporto altrettanto diretto, senza filtri, istintuale che l’autore ha con le immagini. Non ci sono né cornici né preamboli in Crocodile, nel 1996, la sua prima regia dopo essere ritornato in Corea del Sud a seguito dell’esperienza triennale da pittore di strada in Francia, e dopo aver scritto una decina di sceneggiature. Inquadratura stretta di un corpo che si tuffa in acqua. Una persona si suicida. Il Coccodrillo, in attesa sotto un ponte, si tuffa a sua volta per derubare il cadavere. È un’azione che si ripete spesso, sotto gli occhi degli altri due componenti della micro-comunità protagonista del film: il bambino e il vecchio. L’elemento di disturbo, che arriverà dopo poco, è una donna dal misterioso passato, anche lei in procinto di suicidarsi. Se si eccettua il confuso pre-finale, in cui c’è il tentativo di voler recuperare un discorso convenzionalmente narrativo (ritorsioni, malavita, etc.), in Crocodile possiamo enucleare alcuni elementi-cardine: la specificità simbolica del luogo-acqua (la stanza arredata sott’acqua è il rifugio del Coccodrillo, all’interno del fiume Han, un tempo il segno della speranza di Seul, adesso torbido e inquinato messaggero di morte) e i personaggi ‘ai margini’: il ruvido Coccodrillo e Hyun-Jung sono creature che emergono (o si stagliano su) porzioni di spazio desolante, creature silenziose e bidimensionali, rabbiose e fragili, agite da una serie di situazioni che finiranno per esplodere e rendere possibile il loro incontro/contatto, vissuto non più come una violenza, non più come uno scontro, ma come una fuga.
Nel 2000 esce l’Isola. L’ambiente lacustre domina l’intero film. Sulla superficie del lago sono ancorate piccole capanne per pescatori. Hee-jin, proprietaria della riserva di pesca, traghetta gli ospiti dal molo alle capanne, ognuna di un colore diverso. In cambio di denaro offre ai pescatori tutto ciò di cui hanno bisogno. Anche il suo corpo. Senza dire una parola. L’altro corpo-senza-parola è Hyiun-shik: l’uomo si rifugia nella sua piccola casa galleggiante per sfuggire a un passato che ricorre come immagine-ricordo e come tormento nella sua mente: un omicidio passionale. Hee-jin e Hyun-shik stabiliscono un’intesa. L’intesa si trova all’interno di un contatto di sguardi, di movimenti e di piccole violenze, significate da quell’insieme di ami da pesca che prima feriscono lui, poi lei. Il lago, grazie alla sua duplice faccia, ha una superficie che mostra (le capanne, i pescatori, il rapporto tra i protagonisti) e nasconde (il motorino e il cadavere incriminanti, le ancore che impediscono o permettono la fuga, il corpo di Hee-jin dopo aver colpito Hyun-shik e il pesce che continua a nuotare nonostante parte del corpo sia stata tagliata via da un pescatore). Proprio nel finale, questa duplice faccia si confonde per mostrare il fantastico congiungimento finale di Hyun-shik con Hee-jin. Anche qui, il luogo-acqua, nel suo ‘agire’ sui personaggi, è indagabile dall’occhio dello spettatore attivo.
È in Ferro 3 – la casa vuota (2004), vera e propria storia di fantasmi, che il discorso sui luoghi/ambienti è più efficace. Luoghi che permettono l’apertura del senso. In Ferro 3 ci sono case vuote che vengono vissute da un estraneo. Sono appartamenti popolari, moderni, ville lussuose temporaneamente abbandonate da coppie infelici, professionisti solitari, ricchi imprenditori padri-padroni. Tae-Suk si sposta in moto e lascia volantini nelle porte delle case. Dopo qualche ora ripassa, e se il volantino è sempre lì, entra nella casa. Lui, da estraneo, vive un luogo estraneo per una notte. Pulisce, mangia, dorme. Si scatta una foto, e poi scompare. Nel suo percorso trova Sun-hwa. Anche lei corpo-silente, vive e subisce il rapporto con il marito, il quale vuole esercitare su di lei il controllo totale. Sun-hwa fugge con Tae-suk e diventa di conseguenza un fantasma che prende vita (e colore) all’interno delle case che visita. Proprio per questo, durante la prigionia di Tae-suk, Sun-hwa, temporaneamente riconsegnata alla sua vita normale, torna, come uno spirito, in una delle case dove aveva vissuto per una notte (una vita). Quando entra non dice nulla ai reali inquilini che la guardano increduli. Gli sorride, poi si sdraia sul divano e dorme. È così che il suo corpo ritrova l’identità fantasmatica, che più le appartiene. Tae-suk e Sun-hwa giocano, il loro è un liquido fluttuare che occasionalmente si scontra con l’altra realtà, ferendosi. In prigione, Tae-suk si allena per perdere il proprio corpo, farsi ombra e scomparire all’interno della cella, delegittimando i muri, le guardie e lo stato materiale della prigionia. Qualcosa di simile succederà nel più recente Soffio (2007), dove la stanza per le visite all’interno del penitenziario è trasformata da Yeon in un caleidoscopio delle stagioni: anche qui la storia d’amore si crea attraverso lo scarto, stagioni immaginarie della durata di qualche ora permettono a Yeon di vivere un anno intero con Jang Jin, prima della condanna a morte di quest’ultimo. Anche qui, si parla di fantasmi.
Le stagioni sono i segni del ciclo della vita in Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora primavera (2003). Ritroviamo una superficie di lago, e un tempio galleggiante, non ancorato questa volta, ma che si sposta a seconda del vento e dell’acqua. Il monaco cura la crescita e l’educazione del bambino. Ne osserva i primi istinti di violenza (a scapito di una rana e di un pesce), li punisce tramite un simbolico contrappasso (il sasso legato con una corda alla vita). Il bambino impara, prova a dominarsi, ma una volta adolescente (Estate), non può resistere al desiderio e fugge nel mondo ‘fuoricampo’ per inseguire la ragazza che ama. L’autunno lo vedrà tornare, macchiato del sangue di un omicidio. Ancora una volta, il monaco anziano gli farà espiare la colpa attraverso l’autodisciplina e la fatica (l’incisione del testo in ideogrammi cinesi sulle assi del patio). Il film presenta una serie di azioni connotate di forte simbolismo e inquadrate da un vero e proprio sipario: le porte di legno sulle quali sono disegnati due guerrieri, e che a ogni stagione si aprono sul quadro: il lago e il tempio. Le azioni si ripetono. Nonostante le punizioni e la ricerca della disciplina, l’allievo torna, ogni volta, a inseguire i desideri e a cedere agli impulsi. Come nell’Isola, i personaggi sono messi-in-situazione da qualcosa: dall’apertura delle porte (le stagioni) e soprattutto dalla barca, vecchia e malandata, che rappresenta, fino all’Inverno, l’ingresso o l’allontanamento dal tempio. Durante l’Inverno, il congelamento del lago permetterà al nuovo monaco (Kim Ki-duk stesso), di percorrerne a piedi la superficie, per un possibile nuovo inizio.
La messa in situazione dei personaggi, legata alla specificità dei luoghi indagabili, permette di approfondire una delle caratteristiche più complesse del cinema di Kim Ki-duk. C’è qualcosa di sotteso che lega le case di Ferro 3 al tempio galleggiante di Primavera…, o alla stanza per le visite nel penitenziario del Soffio, fino al rifugio sott’acqua di Crocodile e alle capanne dell’Isola, per fare solo qualche esempio. I personaggi dei film di Kim Ki-duk tornano più volte nei medesimi luoghi (il bar, il parco, le case vuote), o li esplorano tramite azioni circolari (l’andata e il ritorno della barca dal molo alle capanne/tempio, le visite dello strozzino ai debitori). Questa ‘moltiplicazione di ripetizioni’ provoca una curiosa domanda nello spettatore: cosa si sta realmente muovendo? Perché quei personaggi hanno bisogno di essere ‘messi in una situazione’, agiti dallo spazio? Si tratta di una loro impossibilità ad agire? Si ha un ripetersi di azioni circolari fino al momento in cui si viene condotti “da uno spazio tempo specifico a un altro spazio-tempo ugualmente autonomo” (Amengual, Fellini II, cit. in L’Immagine-tempo, Gilles Deleuze, Ubulibri, pag.74). I luoghi diventano altro. Effettuano il ‘movimento di mondo’ che influisce e agisce sui personaggi, permettendone lo scarto verticale (il riferimento è al concetto di movimento di mondo individuato da Gilles Deleuze nell’Immagine-tempo, a proposito dello stato di sogno implicato proposto da Michel Devillers). Le case vuote diventano le case di Tae-suk e Sun-hwa. Il lago si rivela come teatro del fantastico. La stanza del penitenziario si trasforma in una relazione durata un anno. La baracca nel bosco di Arirang, infine, nella sua confusione di piani e oggetti e ombre e riflessioni, permette a Kim Ki-duk di incontrare (e scontrarsi con), se stesso. Il movimento di mondo, in Kim Ki-duk, si snoda nel punto d’incontro tra un segmento narrativo orizzontale, essenziale quando non debole (non si ha infatti, il processo per il quale i personaggi derivano dall’intreccio), e la messa-in-situazione fantastica verticale dei personaggi, dotata invece di una maggiore urgenza, non solo visiva. È nel movimento verticale che si manifesta la forza di questi personaggi: il dolore (la ferita), allora, diventa il suono del loro scarto, del loro strapparsi da ciò che li circonda, per scomparire nel muro di una prigione o vivere in una stanza sott’acqua. È il suono della caduta del corpo di Jae-young a terra dopo essersi buttata dalla finestra, sotto gli occhi dell’amica/sorella/doppio Yeo-jin nella Samaritana (2004). Jae-young sorride a Yeo-jin, e poi si lascia andare nel vuoto. Vasumitra, la prostituta che aveva la missione di dare piacere ai clienti, si trasforma in Samaria, ovvero la Samaritana che ritorna dai clienti (nelle stesse stanze d’albergo), per riconsegnare i soldi precedentemente avuti. Nella Samaritana, il movimento verticale profondo immaginato da Kim Ki-duk provoca la dispersione dell’orizzontalità del film (intendendo così il segmento orizzontale: due amiche che raccolgono soldi con la prostituzione, il padre poliziotto di una delle due che è ignaro di tutto e che la mattina, a colazione, racconta alla figlia – Jae-young? Yeo-jin? – storie di devozione cristiana): da questo momento in poi Samaria ripercorrerà le tracce e le stanze dove Jae-young accoglieva i clienti, per espiare il peccato, mentre il padre poliziotto aprirà gli occhi e scenderà sempre più in basso per ottenere vendetta dagli uomini che hanno toccato sua figlia, tramite l’umiliazione, la minaccia, la violenza.
Kim Ki-duk cerca, con un’urgenza che possiamo sicuramente individuare come ‘violenta’ e necessaria, di inquadrare, focalizzare e sentire quella porzione di vita che prova a sottrarsi alla ciclicità del tempo, al ripetersi di maltrattamenti (inflitti e auto-inflitti), alla desolazione e alla marcescenza di ambienti e contesto sociale: è un tentativo doloroso, certo, in quanto quella vita – e i suoi film lo suggeriscono continuamente – lotta contro e tenta di sottrarsi a ciò a cui è legata. In questa esigenza artistica si innestano la messinscena di personaggi-fantasmi (o fantasmatici), il dialogo tra luogo e luogo-altro, ma anche la volontà, da parte di Kim Ki-duk, di maneggiare l’intero iter di ‘costruzione’ del film (inclusa, lo abbiamo ricordato, la produzione, dalla Samaritana in poi), e il percorso inconsueto e trasversale che lo ha portato al cinema (non da cinefilo, non da studente di cinema, non da ex-aiuto regia, anzi più volte criticato dai detrattori per la presunta mancanza di strumenti e l’ingenuità registica).
In Time (2006), Kim Ki-duk si interroga sul sentimento d’amore dietro la maschera del volto-identità e del tempo. Attraverso la chirurgia estetica, See-hee e il fidanzato Ji-woo cambiano l’immagine di sé che proiettano all’esterno. È See-hee la prima a trasformare i connotati del volto, per scoprire quanto è autentico e forte l’amore di Ji-woo. Anche Time è suddiviso in luoghi specifici: il bar dove i due parlano, litigano, si affrontano; e il Parco delle Sculture di Lee II-ho, nel quale una scala, grazie a un gioco di prospettiva, si perde lontana tra cielo e mare. Kim Ki-duk, spesso tacciato di violenza gratuita e misoginia, grazie al rodato meccanismo ‘critico’ che pone l’accento su alcune scelte visive e narrative estrapolandole dal contesto autoriale, mostra in Time una delle scene più – sottilmente – violente del suo cinema: dopo l’ennesima operazione, See-hee si presenta a Ji-woo senza il volto, ma con una riproduzione fotocopiata su carta del suo vecchio volto in faccia. Una maschera, stilizzata e buffa, eppure potente. Quel pezzo di carta terrorizza come un muro invalicabile, e permette al contempo indeterminabili possibilità. Time, come altri film di Kim Ki-duk, è una domanda urgente e violenta. Aldilà delle implicazioni etiche della chirurgia estetica, è l’anelito disperato al sentire, che provoca desiderio di possesso, avvicinamento repentino e poi distacco; è anche la commistione vitale di drammatico e buffo. Si ha l’idea che See-hee e Lee II-ho possano inseguirsi per sempre, tra il bar e il parco, ogni volta l’uno o l’altra con il volto nascosto dalle bende di un nuovo intervento, ogni volta a interrogarsi sul loro amore. I personaggi si ‘liberano dei corpi’ e si muovono verso il fantasma, realizzando (dando forma) all’intento/interrogativo dell’autore.
Nelle vene più desolate, nel degrado della periferia di Seul, all’interno di inquadrature saturate di oggetti deformi che si compattano creando cupe quinte teatrali, nei ‘loculi’ dove i piccoli imprenditori siderurgici attendono con terrore l’arrivo dello strozzino, si ha la più organica manifestazione degli elementi visivi e poetici fin qui delineati. In Pietà possiamo scorgere gli stilemi della tragedia greca. Personaggi e dialoghi ‘scarnificati’ fino a mostrare vividi bagliori di dolore, rabbia, frustrazione e amore. Kang-do, alto e mostruoso, lavora storpiando i debitori e riscuotendo i soldi delle assicurazioni. Una donna comincia a inseguirlo, sopportando violenza e umiliazione per poter affermare di essere sua madre. È nella melma del cortocircuito legato al denaro e alla sopraffazione che Kim Ki-duk, con l’urgenza già citata, osserva la nascita e la scomparsa verticali dei suoi personaggi, che scaturiscono dal desiderio di voler recuperare il passato (recupero che, forse, consentirebbe a Keng-do di agire fuori da una vacua e ciclica ‘cerimonia’) e una casa (la madre, il primo legame), e allo stesso tempo dalla drammatica congiunzione tra vendetta e perdono. Arirang, arirang, arariyo / Amore mio mi hai abbandonato / ti faranno male i piedi prima di tre miglia / Sulle colline Arirang / mandami per favore.
BIOGRAFIA
Kim Ki-duk nasce nel 1960 a Bonghwa, un villaggio di montagna nella provincia del Kyungsang del Nord. Dopo aver svolto vari lavori fin da giovane, si arruola nella marina militare. A seguire verrà la permanenza in un istituto religioso cristiano, fino alla decisione di trasferirsi in Francia per fare il pittore di strada. Al ritorno in Corea comincia a scrivere sceneggiature. La decima che scrive riceve un premio. È del 1996 l’esordio alla regia con Crocodile. Ottiene riconoscimenti e premi soprattutto in Europa, tra cui il Leone d’Argento a Venezia (Ferro 3 – la casa vuota), Un certain regard a Cannes (Arirang) e sempre a Venezia il Leone d’oro (Pietà).
© CultFrame 12/2012 – 12(2020
FILMOGRAFIA
1996 – Crocodile
1997 – Wild Animals
1998 – Birdcage Inn
2000 – L’isola
2000 – Real Fiction
2001 – Address Unknown
2001 – Bad Guy
2002 – The Coast Guard
2003 – Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera
2004 – La Samaritana
2004 – Ferro 3 – La casa vuota
2005 – L’arco
2006 – Time
2007 – Soffio
2011 – Arirang
2011 – Amen
2012 – Pietà
2014 – One to One
2016 – Il prigioniero coreano