Il 20 luglio del 2000 con la legge 211 veniva istituito in Italia il Giorno della Memoria. La scelta ricadeva sul 27 gennaio, data allo stesso tempo storica e simbolica, visto che veniva individuato proprio il giorno della demolizione dei cancelli di Auschwitz. Da allora, in occasione del Giorno della Memoria si susseguono manifestazioni di ogni tipo. Ricordare la Shoah, ovvero lo sterminio di sei milioni di ebrei ad opera del regime nazista, è divenuto (fortunatamente) un punto di passaggio fondamentale per la formazione della coscienza civica dei giovanissimi di oggi (e non solo) che purtroppo continuano, però, a non comprendere bene cosa siano l’antisemitismo, il razzismo, l’odio su base etnico-religiosa.
Come spesso ho scritto da alcuni anni a questa parte, dopo diversi decenni (post-bellici) in cui questo argomento rappresentava un autentico tabù, anche le arti visive (cinema, fotografia, videoarte) si sono avvicinate a questo tema estremamente delicato e importante, non sempre però in modo adeguato. Il fatto è che non è sufficiente mostrare le immagini dell’orrore tramite documenti visivi dell’epoca, poiché in questo modo si lavora su qualcosa che ha a che fare con il ricordo (cioè con aspetti che rimangono in un angolo, lontani dal nostro presente in quanto storicizzati). La questione fondamentale, invece, è lavorare sulla memoria, cioè grazie a un processo di attualizzazione del passato attivato da un’azione creativa. L’emersione del dolore e dell’orrore nel presente determina appunto la memoria e favorisce la comprensione della tragedia di cui sto parlando anche da parte di chi questa tragedia non l’ha vissuta direttamente (per motivi anagrafici).
In questi giorni si parla moltissimo della versione definitiva del documentario montato da Alfred Hitchcock su materiali girati dalle truppe alleate che entrarono nei campi di sterminio e che sarà presto visibile integralmente. Furono divulgate, grazie a queste riprese, le spaventose condizioni nelle quali vivevano i deportati nei campi e al contempo fu rivelato al mondo ciò che i nazisti avevano messo in pratica dentro questi terrificanti luoghi. Si tratta, dunque, di immagini non totalmente inedite, come dimostrano alcuni contributi pubblicati anche su YouTube. La vicenda di questo documentario “dimenticato” di Hitchcock è, ora, il cuore di un lungometraggio (Night Will Fall) firmato da André Singer, proiettato dall’emittente americana HBO il 27 gennaio e poi programmato nel cartellone ufficiale del Festival di Berlino 2015 insieme all’opera originale di Hitchcock restaurata dall’Imperial War Museum di Londra. A parte questo evento, che seppur significativo non dovrebbe proporre nulla di nuovo sul fronte dello studio della Shoah, vorrei in questa occasione segnalarvi i lavori di alcuni artisti e cineasti internazionali che a mio avviso hanno compiuto i percorsi più interessanti legati al tema della Shoah, in particolare, e della memoria, in generale.
Per quel che riguarda il cinema documentario è quasi inutile dire che il testo audiovisivo basilare, che tutti quelli che si occupano di questo argomento dovrebbero vedere in proiezione integrale almeno una volta nella vita, è Shoah di Claude Lanzmann. Opera monumentale (9 ore) e di altissimo profilo intellettuale, Shoah è un film in cui l’orrore non viene mai mostrato in modo esplicito e in cui non si vedono immagini di repertorio. Shoah è un intenso percorso nella memoria, un’indagine lucida e molto precisa sullo sterminio del popolo ebraico che mette in diretto contatto lo spettatore con il gelo della morte (come sostiene lo stesso Lanzmann) e con la ributtante logica del progetto nazista, tutto senza nessuna spettacolarizzazione visuale e nessuna concessione alla retorica. Proprio per questo motivo, Shoah è un film durissimo, un’esperienza formativa per chiunque lo guardi, un’esperienza che va fino in fondo, fino a svelare con chiarezza il nucleo oscuro e spaventoso dell’antisemitismo e dell’odio nei confronti del popolo ebraico (che ancora oggi purtroppo non è stato debellato).
Passiamo al cinema di finzione. Potrei citare molti titoli da Schindler’s List di Steven Spielberg a Il pianista di Roman Polanski (ed eviterò di soffermarmi su La vita è bella di Roberto Benigni, lungometraggio che considero concettualmente sbagliato), ma in questa occasione vorrei segnalarvi un lavoro che è apparso in Italia nella scorsa stagione: Ida, di Pawel Pawlikowski. Opera di rara forza formale, basata su un bianco e nero malinconico, Ida è la vicenda di una novizia di un convento polacco che, negli anni sessanta, scopre improvvisamente le sue radici e la sua vera identità: è un’ebrea ed è una sopravvissuta (quando era molto piccola) allo sterminio del suo popolo. Ma è anche una polacca e una futura suora che matura umanamente nella presa di coscienza diretta della sua appartenenza e del terribile destino che hanno avuto i membri della sua famiglia.
Per quel che concerne il versante artistico voglio portare alla vostra attenzione due figure a mio avviso centrali: il francese Christian Boltanski e l’israeliano Simcha Shirman. Boltanski lavora da molto tempo sul concetto di memoria; e la Shoah entra nelle sue complesse installazioni come elemento fondamentale. Ricordo ad esempio quanto Boltanski fece vedere nell’ambito del Padiglione Francese della 54° Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (2011). L’opera si intitolava Chance ed era costituita da un labirinto di rotative sulle quali scorrevano immagini di volti di bambini e da una postazione video dove lo stesso visitatore poteva bloccare lo scorrimento di primi piani di persone anonime permettendo di fatto l’emersione nel presente di visi sconosciuti (ancorché composti in modo casuale), restituiti al presente proprio attraverso il processo della memoria.
Simcha Shirman, artista, fotografo, nonché poeta e filosofo delle immagini, è nato in Germania nel 1947 ed è stato portato piccolissimo in Israele dai genitori l’anno successivo. Le sue fotografie in bianco e nero, alcune scattate proprio nei luoghi dove avvenne in Europa lo sterminio del popolo ebraico, non hanno nulla di estetizzante e di convenzionale. Le sue opere sono riflessioni profonde sulla questione “dell’assenza” e sul dialogo possibile che potrebbe verificarsi tra un artista dei nostri giorni (ma ciò vale per qualsiasi essere umano sensibile) e chi all’epoca scomparve nel buco nero dell’orrore nazista. I paesaggi tedeschi e polacchi di Shirman (così come talune inquadrature di Shoah di Lanzmann) nel loro naturale equilibrio e nella loro sostanziale indifferenza rispetto alla follia umana comunicano la mancanza, il gelo della morte (proprio come direbbe Lanzmann), il vuoto spaventoso lasciato da chi non c’è più, e l’assurdità evidente dei comportamenti umani; il tutto rappresentato in un sistema espressivo che si manifesta come esempio doloroso di una visione pessimistica dell’esistenza.
© CultFrame – Punto di Svista 01/2015 – 01/2021
(pubblicato su Huffington Post)
Night Will Fall di André Singer (trailer)
SU CULTFRAME. L’immagine della Shoah tra cinema e fotografia. Un libro di Maurizio G. De Bonis