Alcuni giorni fa è scomparso improvvisamente Efrem Raimondi, fotografo di rare qualità artiste e intellettuali. Nel corso degli anni avevo personalmente intrecciato con lui uno scambio sincero e diretto di idee sulla fotografia contemporanea, fatto essenzialmente di messaggi senza fronzoli e convenevoli e di commenti ai testi che scrivevamo.
Noi di Cultframe – Arti Visive intendiamo ora rendergli omaggio pubblicando nuovamente due lettere aperte che io e Efrem ci siamo scambiati nel 2015 sulla fotografia italiana. Leggere oggi la sua risposta al mio testo fa emergere lo spessore dell’uomo e il suo modo chiaro e onesto intellettualmente di comunicare. (Maurizio G. De Bonis, 23 febbraio 2021)
Caro Efrem,
ho ascoltato e visto, in streaming, con molta attenzione il tuo intervento di qualche giorno fa a Milano. Ovviamente, mi sarebbe piaciuto essere presente e avere la possibilità di dibattere con te ma non è stato possibile. Così, ho deciso di scriverti una lettera aperta piuttosto che un’email privata, cogliendo al volo anche il tuo invito alla dialettica espresso davanti al pubblico intervenuto. I motivi? Presto detto: ritengo che sia utile in questo periodo comunicare in maniera diretta e trasparente, evitando i minuetti tipici del mondo della cultura italiana, e quelli veramente insopportabili della fotografia in particolare. E lo ritengo doveroso proprio nei tuoi riguardi, poiché ho sempre apprezzato la tua vivace schiettezza e la tua cristallina volontà di esprimerti al di là dei soliti luoghi comuni. Ho scelto di scriverti pubblicamente anche perché, come sai, non faccio sviolinate (esattamente come te), non ho posizioni di potere da difendere e amo dire quello che penso senza nascondermi. E poi perché quello della fotografia italiana è un piccolo mondo molto soporifero, un vero narcotico anti-creativo sparso nell’ambiente. E allora proviamo a svegliarlo, questo mondo della fotografia.
Ebbene, proprio per i motivi sopra elencati evito di soffermarmi su tutto ciò che tu hai detto e su cui io sono d’accordo. Sarebbe solo una perdita di tempo (queste cose ce le possiamo dire privatamente). So anche che, in fin dei conti, il centro della tua lectio era proprio il tuo lavoro (che merita senza dubbio attenzione). Vorrei, però, concentrami su alcune tue affermazioni e riflessioni (e non solo tue) che mi hanno fatto pensare. E voglio comunicare con te pubblicamente non per fare una sterile polemica e neanche per spettacolarizzare una possibile contrapposizione, ma solo per il gusto di un confronto fuori dagli schemi (e so che in questo tu mi puoi seguire) e, se vogliamo, anche politicamente scorretto.
Ma andiamo al sodo. La prima considerazione che vorrei fare riguarda la tua dichiarazione riguardo il fatto che i giovani fotografi non debbano produrre una “fotografia emulativa” e che non si possa fare fotografia senza avere una “propria idea di fotografia”. Altrimenti, si fanno “solo fotografie”.
Inutile dire che riguardo queste dichiarazioni non ho nulla in contrario. Anzi, sostengo tutto ciò anche io. Quello che mi ha colpito è che nell’incontro in questione non si sia andato in fondo al problema. Si sia scelto di sorvolare per non toccare alcuni punti delicati. Il problema della fotografia in Italia non è che ci siano giovani che facciano una fotografia emulativa quanto piuttosto che ci sia un vero e proprio sistema della fotografia che fa il lavaggio del cervello ai giovani indicando pochi modi di realizzazione della fotografia stessa; e se si opera al di fuori di questi modi non si può far parte del sistema fotografico italiano (e per sistema mi riferisco a quello che ruota intorno da una parte al fotogiornalismo e al reportage, per non parlare della cosiddetta fotografia documentaria, e dall’altra a una fotografia più patinata che trionfa in special modo sui settimanali italiani).
Il sistema editoriale di casa nostra ha, dunque, una responsabilità gigantesca. Impone un linguaggio fotografico preciso (quello che certi photoeditor definirebbero ‘pubblicabile’), senza il quale non si sarebbe dei fotografi. Il discorso, ovviamente, è molto lungo e non può esaurirsi in una lettera aperta, ma ti assicuro che nell’ambito del mio lavoro io incontro giovani che scattano fotografie in una determinata maniera solo perché in linea con determinati principi editoriali di gran moda e fanno ciò perché sono stati convinti da cattivi maestri che devono comportarsi così se vogliono affermarsi a livello professionale e commerciale. In tal senso, caro Efrem, i portfolio non servono veramente più a nulla. Sono tutti uguali (quasi), tutti sterili (quasi), noiosissime clonazioni continue (senza idee) di stilemi imposti. Salvo poche eccezioni, ovviamente (sì, perché fortunatamente ci sono ancora delle eccezioni).
Ebbene, questa prima mia riflessione mi fa venire in mente un’altra tua dichiarazione. A un certo punto nel tuo intervento parli “dell’importanza del linguaggio”, e anche dell’imperfezione. Dici: “ il linguaggio è per sua natura imperfetto… si sviluppa, diviene”. Dal mio punto di vista direi che il linguaggio è il problema più grande della fotografia. Il linguaggio, infatti, non è per nulla imperfetto, è invece un’architettura molto rigida di codici. O si applicano questi codici, oppure no. Quindi il metodo fondamentale per non fare fotografia emulativa non è quello di affidarsi al linguaggio quanto piuttosto quello di rompere i codici linguistici e dunque di percorrere una continua strada di decostruzione. Il problema è che l’atto di decostruzione una volta che si è assestato diviene a sua volta codice, dunque qualcosa di rigido che può essere solo decostruito. Questa sintetizzata in poche parole è la storia dell’evoluzione dei linguaggi artistici (tutti). Si tratta sì di un divenire (come lo definisci tu) ma anche di un costante, salutare, atto di sovversione libertaria messo in atto da quei pochi “folli” che, di fatto, negano il potere assoluto del linguaggio. Dunque, per quel che mi riguarda è più importante l’assenza di un linguaggio, la sua negazione, piuttosto che la sua presenza.
Ma le questioni sulle quali mi sono soffermato di più, sono scaturite da due domande (probabilmente poste in modo provocatorio e arguto da Giovanni Gastel, se non ho capito male). Le riporto, spero correttamente. La prima: “Efrem tu, dunque, sei per una fotografia autoriale?” La seconda: “Secondo te esiste ancora una fotografia autoriale italiana nella fotografia?”.
Ebbene, riguardo la prima mi sono chiesto: “ma questa domanda sarebbe stata posta a un cineasta, a uno scrittore, a un pittore oppure a un musicista”? Io penso di no. Invece, nell’ambiente fotografico ancora si sente il bisogno di puntualizzare tale questione. Vorrei domandare a mia volta: “Ha senso porre una domanda simile”? Oppure, ancora: “ha senso pensare a una fotografia fuori dal pensiero dell’autore”? Per me no, ma la domanda forse ha un amaro e fastidioso fondo di verità, e questo fondo di verità spinge le sue radici proprio in quel sistema italiano che detesta con tutte le sue forze l’idea dell’autore in fotografia, semplicemente perché un autore degno di questo nome non è controllabile e agisce fuori dai codici, anche quando lavora all’interno di un genere (in ciò l’area cinematografica ci ha dato grandi insegnamenti).
Per quel che concerne il quesito sull’identità della fotografia italiana, devo dire caro Efrem, che ho colto un tuo grande imbarazzo e ho capito che eri sul punto di dire delle verità molto scomode. Ma poi hai riflettuto qualche secondo e hai trovato una strada accettabile, e a parte alcuni comprensibili tentativi di fare dei riferimenti fotografici hai tirato fuori in modo geniale un nome indiscutibile: Caravaggio. E non è un caso che per salvarti da una situazione complicata tu abbia diretto il tuo pensiero, con eleganza, verso il mondo della pittura.
La verità è che un’identità italiana è molto difficile da rintracciare in fotografia e che se mai ci sia stata in passato (forse sì) oggi è totalmente inesistente, così come è inesistente un’identità culturale italiana in generale. Ma dico ciò non per mettere a fuoco un lato negativo della nostra cultura, anzi proprio la mancanza di un’identità potrebbe rappresentare un aspetto positivo. Dietro il concetto di identità ci si può nascondere, ci si può creare degli alibi e sinceramente l’idea che si debba fotografare in un solo modo (a prescindere) perché si è italiani mi fa abbastanza orrore, come fosse una specie di nazionalismo fotografico automatico/genetico (ma ciò, comunque, non toglie che si possano studiare e analizzare a livello critico e storicistico i movimenti fotografici nazionali e anche identificare alcuni tratti culturali precisi, ammesso che esistano).
Per quel che mi riguarda, vorrei che l’identità della fotografia italiana fosse proprio la mancanza di un’identità (stabilita da chi, poi) a favore di una libertà espressiva totale di carattere individuale. Sarebbe già moltissimo. Sarebbe un segno di vitalità, di volontà di ricerca, di desiderio di nuovo e di diverso, sarebbe un impulso verso una creatività sana e moderna.
Bene, questa lettera aperta contiene già molti elementi, caro Efrem. Mi piacerebbe che tu la leggessi e la considerassi solo un passaggio come un altro del nostro confronto, che è sempre avvenuto in modo sincero. Come sai, non è lo scontro gratuito che mi interessa, quanto piuttosto il fatto di comunicare civilmente le proprie idee e di dire esattamente ciò che si pensa anche quando non si è perfettamente d’accordo e senza timore di dispiacere a chi conta. Altrimenti sarebbe una noia tremenda.
Con stima e amicizia
Maurizio G. De Bonis
Direttore responsabile di CultFrame – Arti Visive
Vice presidente di Punto di Svista – Cultura Visuale, Progetti, Ricerca
Lettera di Maurizio G. De Bonis pubblicata lunedì 11 maggio 2015.
Pubblichiamo la risposta di Efrem Raimondi (martedì 12 maggio 2015)
Vado al sodo Maurizio. E ti ringrazio per l’occasione.
L’incontro in Triennale di giovedì scorso, la mia cosiddetta lectio magistralis, aveva una mira precisa: parlare soprattutto ai giovani fotografi. Senza alcuna presunzione. La situazione generale, mica solo quella italiana, è piuttosto complessa e certamente in un’ora e mezza non ero in grado di approfondire come invece avrei voluto. E come sicuramente alcuni temi che ho toccato meritavano. Ma credo che gli accenni siano stati comunque forti.
Sono partito dalla mia fotografia, quella che produco. Perché credo che se un fotografo intende parlare a altri fotografi ma anche a chiunque, di argomenti ampi che davvero lo riguardano, non può e non deve nascondersi: si mostri!
E ciò che poi ho detto credo sia imprescindibile da ciò che ho mostrato. O viceversa… boh.
Non so se esiste un sistema, organizzato tipo SPECTRE modello James Bond che in qualche modo sovrintende… quello che vedo è che indubbiamente il sistema periodico italiano, salvo alcune eccezioni, non è più in grado di offrire nemmeno asilo a chi ha una voce distonica, o semplicemente altra rispetto all’omologo.
Ma mica solo in Italia… è come un grande lenzuolo. Di cemento…
Capire da dove parta non solo non saprei dire, ma non credo sia nemmeno utile alla causa. Cioè capire a chi arriva e come intervenire su questo.
E non riguarda il solo reportage. Per questo nella lectio distinguevo sulla questione dei generi e della fotografia, quella che mi interessa e mi riguarda.
Perché poi… io mica vedo tutta questa fotografia patinata. Vedo fotografie simili e facilmente intercambiabili: che si parli di pizza, di sneakers o di Dio.
E vedo una fottuta paura nei corridoi di molte redazioni. Quelle che no, hanno una precisa linea editoriale. E non costano due euro.
Linguaggio… quello al quale penso non si riduce a un mero fatto comunicativo che in sé è certamente legato, concedimi il termine, a una abitudine… un costume. Una convenzione anche sociale. Quello al quale mi riferivo coincide con la volontà dell’autore di esplodere la propria urgenza espressiva.
Modello Louis-Ferdinand Céline… così ci capiamo al volo.
Quindi sì un sistema. Ma proprio.
La questione della perfezione fa capolino per il fatto che è piuttosto diffusa l’idea di fotografia perfetta. Ed essendo la fotografia, per me almeno, un linguaggio, ça va sans dire…
L’omologazione di cui parli… nella lectio ho più volte sottolineato un termine: chance. Se ne hai una, giocatela per ciò che realmente sei. Forse avrei dovuto aggiungere: che tanto vale dire la propria e essere rimbalzato che dire quella parente a microcosmo di riferimento e essere preso comunque a calci.
Come dire: almeno ti appropri del diritto all’arbitrio! Che per un autore è fondamentale.
Qua ormai si parla solo di modelli intercambiabili e utili.
Talmente utili che e funzionali che non si contano più gli editori che dichiarano lo stato di crisi. Ma provare diversamente no?
Vero. Difficile rintracciare un’identità italiana. Ma solo perché si fa di tutto per evitarla. Credo davvero che la memoria e il patrimonio iconografico di questo paese rappresenti un DNA. E infatti è stato un divenire. Non un fatto episodico.
Il sistema che ci fa credere che siamo adesso inadeguati, si chiama marketing e parla una lingua che non mi riguarda. E che non mi sembra però ottenere tutto questo successo…
Non credo si possa prendere però le parole solo in modo letterale… identità per me ha valore più di capacità nel riconoscere le affinità: per me non esiste alcun linguaggio internazionale in fotografia. Solo una parodia utile.
Concludo Maurizio, dicendo che però io non posseggo alcun verbo.
Avevo una lectio e ho detto la mia. Imperfettamente
Un abbraccio!
Efrem Raimondi
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La fotografia non esiste. L’intervento di Efrem Raimondi presso la Triennale di Milano