Le “scatole” della memoria ⋅ Il cinema di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige ⋅ 39° Torino Film Festival

SCRITTO DA
Silvia Nugara
Frame tratto dal film "Memory Box" di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige

Da tre decenni, la coppia di artisti libanesi Joana Hadjithomas e Khalil Joreige esplora il rapporto tra storia, memoria, luoghi e immagini in un’oscillazione tra permanenza e impermanenza, presenza e latenza, materialità e immaterialità. Per ripercorrere tutto il loro cinema, cui è stato dedicato un omaggio articolato a cura di Massimo Causo nell’ambito del 39° Torino Film Festival, è sufficiente partire dal loro film a soggetto più recente, Memory Box, il primo ad avere una distribuzione italiana. Quest’opera, presentata in anteprima alla Berlinale 2021, sorprende per l’originalità con cui affronta l’impatto della guerra e dell’esilio attraverso un lavoro artigianale di ricontestualizzazione delle immagini di repertorio. La vicenda inizia ai giorni nostri a Montréal, durante le feste di Natale, quando Maia riceve da Beirut un grosso pacco contenente tutta la corrispondenza che in piena guerra civile, tra i tredici e diciotto anni, aveva scambiato con la sua migliore amica dell’epoca fuggita con la famiglia a Parigi. L’amica è appena morta e i quaderni, le audiocassette e le fotografie spedite allora si trovano riunite in una specie di vaso di Pandora che Maia non desidera scoperchiare. Ma la scatola della memoria suscita un fascino irresistibile sulla figlia adolescente Alex che di nascosto se ne impossessa e ne scandaglia il contenuto scoprendo il passato della madre, la sua adolescenza avventurosa tra amicizie, amori, rock’n’roll, guerra e segreti di famiglia.

Frame tratto dal film Memory Box di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige

Memory Box è l’esito di uno straordinario intreccio di finzione e documento, analogico e digitale, cornice narrativa e archivi privati dei due registi. Da una parte, infatti, i taccuini che si vedono nel film sono quelli che Joana Hadjithomas scriveva ossessivamente durante la guerra in Libano negli anni Ottanta: pagine di diario vergate di pensieri, segreti, sogni, speranze per passare il tempo e placare l’ansia nei giorni trascorsi in casa al riparo dalle bombe, schemi in cui prendeva nota quotidianamente dell’andamento del proprio umore, biglietti di cinema o di concerti, ritagli di giornale, disegni. D’altra parte, l’archivio delle fotografie di Beirut scattate in quegli stessi anni da Khalil Joreige diventa lo sfondo su cui si muovono i personaggi nelle sequenze di repertorio ricostruite attraverso un sofisticato intreccio tra animazione, immagine analogica digitalizzata e digitale post prodotta. Documenti e dettagli di vita realmente vissuta vengono ricontestualizzati in un’opera che interroga la rappresentazione del trauma attraverso un continuo rimpallo tra realtà e invenzione.

Per di più, nel rapporto tra le fotografie analogiche che scattava Maia da giovane e quelle che realizza la figlia Alex con il suo smartphone si colloca tutto un pensiero su continuità e rotture storiche rispetto allo statuto delle immagini nella nostra vita quotidiana e ai modi di realizzarle: “Le immagini sono conoscenza. A noi interessa capire come i processi di produzione influenzano il tipo di immagini e dunque di conoscenza che ne sono esito. Oggi siamo nell’epoca dei selfie ma questo tipo di fotografie sono delle estensioni della mano che le scatta ed esprimono un rapporto tra corpo e immagine molto diverso da quando io ero ragazzo e scattavo fotografie interrogandomi sul rapporto tra il mio corpo e il corpo altrui, tra realtà, lenti e luce” ha spiegato Joreige durante la masterclass tenutasi a Torino. “Joana e io ci siamo trovati a collaborare dopo la guerra civile in Libano, non avevamo compiuto studi accademici ma attraverso la fotografia e le arti desideravamo affrontare l’ansia che provavamo”.

Frame tratto dal film “Autour de la maison” rose di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige

Il primo film che realizzano è Autour de la maison rose (1999) una commedia amara sulla Beirut post-bellica con un sorprendente finale dal sapore documentaristico. Le vicende degli abitanti di un palazzo in via di demolizione diventano l’occasione per raccontare i paradossi di un dopoguerra in cui “ricostruzione” fa rima con distruzione della memoria e del senso di comunità. Mentre i personaggi intrecciano sogni e timori cercando di far fronte al progetto che vorrebbe cacciarli di casa per far spazio a un centro commerciale, il film mostra la progressiva erosione dello spazio pubblico e il dilagare di una concezione urbanistica funzionale al profitto di imprese e privati stranieri.

Sin da allora, l’opera di Hadjithomas e Joreige si nutre di ibridazioni tra immaginazione e realtà: “quel che accade nella realtà ci sorprende sempre e influenza il nostro lavoro, permette la proliferazione di progetti a partire da un nucleo iniziale, imprime ai nostri film direzioni impreviste”. Come nel caso di Al Film Al Mafkoud. The Lost Film (2003) nato a seguito della scomparsa in Yemen di una copia del primo film dei due che, per ritrovarla, si recano prima a Sanaá e poi ad Aden riflettendo sul ruolo del cinema, della libertà di espressione e della censura in quella zona del mondo. Ma quello che sembrava dover essere solo il primo di una serie di viaggi in Yemen finisce per essere l’ultimo a causa dell’abbattimento delle Torri Gemelle. Tutte le immagini girate come appunti per una lavorazione in divenire si trasformano in rimpianto delle immagini mai girate, quelle che si sarebbero volute o potute realizzare.

“Ci interessano le cose che ci sono senza che si vedano” hanno spiegato i due durante la masterclass: “l’arte per noi è il luogo in cui si possono vedere le cose che le narrazioni dominanti non mostrano. La storia libanese è piena di fantasmi, di persone rapite e scomparse, di segreti non svelati come quello delle bombe a grappolo. Come rivelare tali verità? In che condizioni tali elementi e storie possono emergere alla luce? Ciò che ci interessa sono le storie e le immagini latenti”. Sono difatti numerose, nei lavori della coppia, le immagini che materializzano sullo schermo questa ricerca. Basti pensare alle sequenze del lungomare di Smirne – città cosmopolita da dove nel 1922 l’esercito turco ha scacciato la famiglia di Hadjithomas – e di quello di Beirut filmati tramite un’identica sovrimpressione di riprese in Ismyrna (2016) e in Memory Box (2021) con l’esito di vederli attraversati da una moltitudine di figure fantasmatiche.

Frame tratto dal film “Ismyrna” di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige

Analogamente, in A Perfect day (2005) si va in cerca di una delle 17000 persone scomparse in Libano durante anni di bombardamenti e di cui non si è ritrovato neanche un corpo, lo zio di Joreige. A quest’assenza straziante corrispondono luoghi urbani e non martoriati dalle guerre, i cui segni vanno però interpretati prima che vengano cancellati da quei restauri frettolosi – tra rimozione e gentrificazione – che li annullano. Ancora prima che tale processo si inneschi, una ricerca può essere vana come quella della casa della nonna del protagonista di Je Veux Voir (2008), il loro attore feticcio Rabih Mroue, che non riesce più a orientarsi tra le rovine del villaggio dove ha trascorso l’infanzia e in cui ha portato nientemeno che Catherine Deneuve. La complicità della diva al progetto di questo film permise – letteralmente – alla camera di Hadjithomas e Joreige di accedere alle zone di confine del Sud del Libano all’epoca presidiate dall’Onu nella coda di un conflitto appena attenuatosi lasciando migliaia di mine antiuomo e chilometri di macerie.

Rendere visibile l’invisibile, dunque, dal campo di detenzione di Khiam di cui nel film Khiam 2000-2007 (2008) narra chi vi è stato prigioniero e che divenne un museo della memoria, andato però distrutto durante la guerra del 2006; alla pioneristica avventura aereospaziale libanese degli anni Sessanta che in The Lebanese Rocket Society (2012) i due non si limitano a riscoprire arrivando a ricostruire un prototipo di razzo trasportato non senza trepidazione per le vie di Beirut e poi eretto a monumento di una storia che mai si è compiuta nel cortile della Haigazian University (fondata, peraltro, dalla comunità armena sopravvissuta alle persecuzioni turche).

“Wonder Beirut”. Installazione di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige

Hadjithomas e Joreige sono noti anche per le loro installazioni artistiche, che sfociano nella performance come nella serie Wonder Beirut realizzata a partire da un archivio di pellicole fotografiche non sviluppate, di stampe bruciate man mano che negli anni sparivano i luoghi rappresentati e che li ha infine visti protagonisti del reading Latent Images. Diary of a Photographer alla Biennale di Venezia 2015. Così, i due continuano a sperimentare ogni forma di rappresentazione che possa restituirci un frammento di sguardo sulla realtà. Non a caso, chi visitò l’installazione del 1997 intitolata Circle of confusion poteva togliere una delle 3000 tessere in cui era suddivisa una grande immagine di Beirut, dietro le quali si rivelava uno specchio. Il concetto di immagine “mancante” (definito al cinema da Rithy Panh) si accompagna per loro a quello di immagine “latente” che conserva sempre una presenza, ma che sta a noi riattivare ricostituendo quelle “scatole” della memoria che vengono incessantemente svuotate dalle guerre, dai media, dalle speculazioni edilizie e finanziarie. Con la stessa testardaggine del nonno della regista che, sparita da una cassetta di sicurezza la dote che aveva messo da parte per la figlia, ha voluto ricostruirne l’identico contenuto decenni dopo, malgrado fosse oramai inutile.

© CultFrame 12/2012

SUL WEB
Il sito ufficiale della coppia Joana Hadjithomas e Khalil Joreige
Torino Film Festival

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Silvia Nugara

Silvia Nugara ha un dottorato di Linguistica Francese e i suoi interessi ruotano attorno alle relazioni tra il linguaggio e la costruzione della realtà sociale, con particolare riferimento agli immaginari e ai discorsi relativi alle soggettività di genere. Attualmente è redattrice di Punto di Svista e Cultframe - Arti visive.

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