L’edizione 2022 del Cinéma du Réel di Parigi ha offerto una ricca panoramica di opere provenienti da tutti i continenti, confermandosi al centro di una primavera di proposte festivaliere (tra Berlinale e Nyon) in cui il cosiddetto cinema del reale si mette in mostra con la sua tensione continua a cercare di dare senso e forma al nostro stare al mondo.
La manifestazione diretta da Catherine Bizern riserva inoltre da sempre uno sguardo particolarmente attento al cinema militante e non euro-occidentale, come dimostra anche il Palmarès 2022. Difatti, la giuria composta dagli italiani Alessandro Comodin ed Eva Sangiorgi con Françoise Romand, Annette Dutertre e Berni Goldblat – che aveva il compito di vagliare i lungometraggi presenti tanto nella competizione internazionale quanto in quella nazionale francese – ha assegnato il primo premio al brasiliano Mato seco em chamas di Adirley Queirós Andrade e Joana Pimenta, con la motivazione seguente: “Pour un film radical et apocalyptique qui utilise les genres cinématographiques comme une arme pour rompre le sortilège du présent”. Presentato già alla Berlinale, il film nasce da un’interessante commistione di finzione e cronaca calandosi nelle periferie di Brasilia (da nomi utopici quali Sol Nascente) insieme ad alcune donne dedite al mercato nero del petrolio. Benché sia a tratti ricevibile come un’opera a soggetto, il film svela altrove il suo farsi, come quando la protagonista si rivolge alla camera commentando la sua partecipazione alle riprese che si stanno realizzando e in cui si ritrova coinvolta al di là di ogni possibile previsione, divenendo un personaggio che le somiglia ma che non avrebbe mai pensato di trovarsi a interpretare al cinema. Così, rintracciate le loro interpreti ideali tra le abitanti di quella zona, Queirós Andrade e Pimenta hanno costruito loro intorno uno spazio, di scena in scena, incitandole a materializzare desideri e rivendicazioni reali tramite un copione che ne consente l’espressione in chiave emancipativa. E la costituzione di un Prison People Party anti-bolsonariano prevista in sceneggiatura è stata registrata per davvero.
Brasiliano è risultato anche il Miglior cortometraggio di quest’edizione: Urban Solutions, lavoro collettivo di Arne Hector, Luciana Mazeto, Minze Tummescheit, Vinicius Lopes affonda con ironia nella storia di un continente ancora ferito dalla violenza coloniale giustapponendo le voci di viaggiatori del passato e di subalterni di oggi (concentrandosi sui custodi di palazzine borghesi) per incitare a una rivolta quanto meno pensabile. L’altro riconoscimento importante del Réel 2022, il Prix international de la Scam, è andato a Sergei Loznitsa per il suo Mr. Landsbergis: found footage film, come il regista ci ha abituato, ma non solo dato che al recupero di ore e ore di riprese televisive sulla lotta per l’indipendenza da Mosca della Lituania tra il 1988 e il 1991 si aggiunge una lunga intervista realizzata oggi a uno dei protagonisti di quel processo, Vytautas Landsbergis, fondatore del movimento Sąjūdis. Malgrado abbia firmato opere innegabilmente patriottiche come Maidan (2014) e Donbass (2018), Loznitsa si è espresso pubblicamente in favore di una prosecuzione delle relazioni con il mondo culturale e artistico russo e nei giorni del festival parigino è stato per questo espulso dall’Ukrainian Film Academy a cui ha replicato definendo tale decisione “a gift to Kremlin propagandists”. Durante la visione di Mr. Landsbergis, il ripensare alla dissoluzione dell’Urss, e a squarci su prospettive geopolitiche che si credevano passate e potrebbero rivelarsi future, apre comunque molteplici risonanze con l’attualità presente: ecco il “reale” con cui fare i conti.
Accanto alle opere diversamente monumentali premiate tra i migliori lunghi, e ad altri casi di reinvenzione del cinema diretto e del documentario di repertorio, spicca anche chi un repertorio se l’è creato nel corso di decenni come si vede nel Premio della Giuria dei Giovani e dell’Institut Français Xaraasi Xanne (Les Voix croisées) di Raphaël Grisey e Bouba Touré. Quest’ultimo, purtroppo scomparso a gennaio 2022, ha infatti documentato per mezzo secolo esperienze di vita, di lavoro e di lotte panafricane (dalle prime, in Francia, dei lavoratori immigrati occupanti foyer alla costituzione di ACTAF, l’Association Culturelle des Travailleurs Africains en France) oltre che la creazione della cooperativa agricola Somankidi Coura nata al confine tra Mali, Mauritania e Senegal per riscattare terreni impoveriti da dominio imperialista, sfruttamento intensivo e monoculture. Touré e Grisey, in una staffetta significativa tra diverse generazioni e provenienze, hanno confezionato un’opera quasi enciclopedica a partire da immagini realizzate ieri (gli anni 70), l’altrieri (i repertori coloniali) e oggi (dai formati ridotti si passa ai video, dalla radio ai social) incrociando storie e voci raccolte in una vita intera. Come afferma Touré nel film: se non lo facciamo noi stessi, chi altri può documentare la nostra vita e le nostre battaglie?
Al pari degli immigrati raccontati in quest’ultimo film, che in Francia divennero operai ma organizzarono poi tramite la cooperativa una sorta di ritorno alla terra nelle loro terre, anche i protagonisti di Nous, étudiants! di Rafiki Fariala (Menzione speciale della Giuria lungometraggi e Prix des bibliothèques) vengono dalla campagna e si sono iscritti a Economia presso l’Università di Bangui (Repubblica Centrafricana) precisamente per non fare i contadini. Il regista stesso, dalla vocazione di cantante come mostrano la sequenza d’apertura girata con la modalità del “selfie” e le sue esecuzioni successive che commentano gli accadimenti filmati, è uno di questi studenti ma ha anche iniziato a fare cinema grazie a un corso degli Ateliers Varan (sul cui sito è visibile il suo primo corto:). Nati da un’idea di Jean Rouch per offrire occasioni di formazione al cinema a chi non ne abbia i mezzi, gli Ateliers sono auspici anche di quest’opera nella quale Fariala registra con spontaneismo apparente, ma ricostruendo varie situazioni, le vicende dei suoi coetanei tra aspirazioni e insuccessi universitari in un contesto ben diverso dai campus occidentali
In questo genere di documentari capita di ritrovarsi davanti a sequenze in cui la mano dietro la camera sembra perdere la presa su ciò che inquadra proprio perché viene meno ogni distanza con i soggetti filmati; i quali talvolta interpellano direttamente lo sguardo di chi li filma. Ciò accade anche in Boum boum di Laurie Lassalle, lei stessa protagonista dell’innamoramento con un giovane gilet jaune conosciuto a una manifestazione, e in Relaxe di Audrey Ginestet (Prix Loridan-Ivens e Cnap), la cui lavorazione è stata quasi terapeutica per la comunità di Tarnac, villaggio nella regione della Corrèze, sottoposta dal 2008 a un’odissea giudiziaria con l’accusa di terrorismo di matrice anarchica. Ginestet ci racconta la vita scombussolata di un gruppo di donne, politicamente impegnate e che grazie al film stesso cercano di farsi forza per continuare ad esserlo malgrado la tempesta giudiziaria duri dieci anni e sia infine destinata a non dare alcun luogo a procedere.
Nell’ampia panoramica di visioni recenti e premiate a Parigi non sembra dunque esserci posto per l’osservazionismo spinto che ha contraddistinto molta voga del reale nell’ultimo quindicennio. Un esempio potrebbe esserne The Plains di David Easteal, tre ore di riprese fisse realizzate in piano sequenza dentro l’abitacolo di una macchina che, dopo il lavoro, riporta a casa ogni sera un collega del regista e – alle volte – lui stesso. Tra quadri nel quadro (il cruscotto, il navigatore, un tablet su cui vedere le foto di famiglia e le riprese di droni realizzate dal protagonista), telefonate rituali e conversazioni reticenti questo dispositivo permette di ricostruire a frammenti la normalità e l’eccezionalità di ogni esistenza.
Fuori dal Palmarès e nel cuore dei problemi della vecchia Europa, merita un segnalazione Le Chant des Oubliés di Luc Decaster. Il film si conclude effettivamente con un canto ma nel titolo, e anche in parte nella forma, rinvia allo storico Le Chant du Styrène (Il canto del polistirene) diretto nel 1957 da Alain Resnais con testi di Raymond Queneau tradotti per l’Italia da Italo Calvino grazie alla consulenza tecnica di Primo Levi in quanto chimico. Si lavoravano infatti materie plastiche nella Semperit di Argenteuil di cui Decaster ha filmato la sparizione, dalle lotte operaie per mantenere la produzione in Francia, alla delocalizzazione senza rimedio e alla distruzione materiale del sito a sicuro scopo di speculazione immobiliare. Al di là del movente estetico, del fascino per le macchine che plasmano la plastica fusa e per i loro scheletri poi abbandonati, la sinfonia composta dal regista con la montatrice Claire Atherton e il musicista Marius Atherton (complici già nel suo altro film sul lavoro del 2011 On est là!) è dedicata ai “dimenticati” lasciati inesorabilmente indietro dai giochi dell’economia globale.
Per economia di mezzi, misure sanitarie ed esigenze di studio preparatorio a opere e installazioni più articolate, c’è da notare un’ultima tipologia ricorrente di forme in cui sullo schermo s’impongono la lettura e la parola. È il caso di Les Lettres de Didier di Noëlle Pujol, dove due attori professionisti provano quello che la regista ha rivelato potrebbe essere un musical ispirato alle corrispondenze inviatale da suo fratello, caratterizzate da una lingua più inventiva che corretta e da ricorsive ossessioni linguistico-discorsive. E anche del corto Hirugarren koadernoa (Third Notebook) di Lur Olaizola Lizarralde dove i diari scritti durante l’esilio messicano (nei primi anni Ottanta) dall’ex militante dell’ETA María Dolores González Katarain, detta Yoyes, sono recitati dall’attrice che interpretò Yoyes in un film di successo, Ana Torrent, in dialogo con la regista. Sapendo che l’ETA ucciderà l’autrice di quelle pagine dopo il suo ritorno in Spagna, il suo periodo trascorso in Messico assume significati ulteriori. Con un’invenzione ancora diversa, Ruth Beckermann ha coinvolto un centinaio di uomini nei provini per un’ipotetica trasposizione del testo pornografico firmato forse dall’autore di Bambi Felix Salten, e da questo confronto con lei e con le parole oscene – ancora oggi – di quel libro è nato Mutzenbacher.
Ci sono infine i cosiddetti film-saggio in cui un’intera bibliografia storica riesce a essere miracolosamente inserita in un testo cinematografico. Ciò avviene con gran perizia in Navigators di Noah Teichner, ricercatore che per anni ha studiato le vere e proprie deportazioni di comunisti e anarchici espulsi dagli Usa verso l’Urss nel periodo da noi denominato “biennio rosso” e in particolare il caso della Bufort stipata di 249 soggetti “pericolosi” come Aleksandr “Sasha” Berkman ed Emma Goldman, poi ricordata anche in Reds (1981) di Warren Beatty. Dopo avere riprodotto su cartone inciso i titoli di testa e vari brani delle loro memorie e altri testi poi filmati in pellicola, Teichner ha costruito il suo film in una sorta di continuo e geniale split screen tra queste parole e sequenze de Il Navigatore (1924) di Buster Keaton che fu girato proprio su quella stessa imbarcazione; esponendo quindi nei titoli di coda il catalogo dei vinili i cui suoni hanno accompagnato la visione (canzoni dell’epoca che ironizzavano sul pericolo bolscevico firmate da immigrati est-europei come Irving Berlin o da Jazz Band coeve) in una composita ma ben riuscita combinazione di fonti, memorie, storia sociale e immaginario. In modo più semplice, Anyox di Ryan Ermacora e Jessica Johnson incorpora invece dentro a panoramiche d’osservazione di un ex sito minerario canadese, oramai abbandonato, varie tipologie di repertori tra cui lo scorrere di microfilm con documenti d’epoca e le voci registrate o recitate degli operai che si concentrano sui grandi scioperi del 1933 contrastati con ogni mezzo dalle autorità locali. Nel paesaggio e nell’archivio, insomma, contemporaneamente, un po’ come cerca di fare anche Sarah Leonor in Ceux de la nuit filmando le montagne alla frontiera di Monginevro e proponendoci interviste orali e testimonianze di solidali e migranti giustapposte a scene de Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi; lo aveva fatto già The Milky Way (2020) di Luigi d’Alife, ma il cinema del reale continua a macinare la sua ricerca per incidere sulle contraddizioni del nostro tempo.
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