Caro Maurizio,
Come accennavo in una email precedente, il tentativo di rappresentare fotograficamente Roma – sia pure una Roma, come suggerisci tu, interiormente ricodificata e quindi almeno parzialmente « tradita » – presenta un certo numero di difficoltà. Qui di seguito ne evocherò alcune.
Ma prima di andare avanti vorrei chiarire un punto che mi sembra importante. Per quanto sia d’accordo con te sulla necessità di una ricodificazione della città che si allontani dalla « rappresentazione oggettiva della realtà odierna », non posso fare a meno di pensare che un lavoro fotografico che intenda dare un’immagine di una realtà urbana debba mantenere una certa fedeltà al modo in cui questa si rivela qui e oggi. Detto altrimenti, il tradimento non può essere totale; c’è qualcosa di Roma che si impone ostinatamente e in modo irriducibile al mio sguardo e di cui non posso non render conto.
Mi sembra che una delle difficoltà maggiori che Roma ponga a chi tenti di raccontarla nel linguaggio proprio alla fotografia risieda nel fatto che è una città profondamente contraddittoria: « stupenda e misera », la definiva Pasolini nel testo da te citato qualche giorno fa; Roma capoccia der monno infame – diceva Antonello Venditti in una canzone popolare, con una formula vagamente ossimorica. Non è un caso se all’interno del foro romano, sin dai tempi di Numa Pompilio, campeggiasse il tempio di Giano bi-fronte: la contraddizione è al cuore dell’Urbe.
Come restituire allora, nello stesso gesto, lo splendore e la miseria di Roma? L’ossimoro mi pare il modo più adatto – o se non altro il meno inadatto – per parlare della nostra città. Roma ci costringe, in un certo senso, a fare gli equilibristi; a tenerci sulla linea di confine tra una determinazione e il suo esatto contrario: l’antico e l’ultra-moderno, l’indicibile bellezza e la mostruosità, l’eleganza estrema e il cattivo gusto, il cemento e la vegetazione selvaggia. E via dicendo. È ciò che mi propongo di fare nel corso del mio lavoro fotografico: tenermi per quanto possibile sull’orlo della contraddizione, esplorando nelle loro svariate concretizzazioni le forme visive dell’ossimoro.
In questo suo divaricarsi tra gli estremi, Roma sa essere eccessiva, iperbolica. Basti pensare alla smisurata raffinatezza di alcuni luoghi e ambienti intellettuali della capitale e compararla alla volgarità dei luoghi e degli individui che Ettore Scola mette in scena in Brutti, sporchi e cattivi (1976). Ed è forse per questo che Roma sembra convenire a chi ha il senso – o il gusto – dell’assurdo, laddove gli spiriti troppo razionali hanno difficoltà a conformarvisi.
Un’altra difficoltà la pone l’abbondanza o meglio la sovrabbondanza delle storie che costituiscono l’anima della nostra città – sovrabbondanza che dipende senz’altro dalla sua lunga storia (quasi tre millenni dalla sua fondazione ad oggi). D’altronde, mi sembra che lo scetticismo e il noto immobilismo (accidia?) dei romani trovino la loro origine – e in parte la loro giustificazione – proprio in questa sovrabbondanza: in fondo, quando si ha assistito ad ogni sorta di eventi ci si abitua a tutto e l’impulso ad agire viene meno. (La stessa impressione di immobilismo atavico l’ho avuta qualche anno fa durante un breve soggiorno al Cairo, città anche lei – e ancor più di Roma – plurimillenaria).
Una visione di Roma che scegliesse soltanto una di queste trame narrative – dimenticando totalmente le altre – si presterebbe quindi facilmente ad essere tacciata di parzialità (mi sembra rappresentativo, in questo senso, il recente lavoro del fotografo israeliano Nadav Kander – il cui punto debole è da ritrovarsi a mio avviso nel fatto che si concentra esclusivamente sui resti delle antichità romane). Mi chiedo però – e ti giro la domanda – se la parzialità sia una trappola da evitare a tutti i costi o se, al contrario, non sia una opzione in fin dei conti giustificabile, data l’impossibilità di tirare i fili di tutte le storie di cui l’Urbe è ed è stata matrice.
Roma è una città stratificata, a tal punto che in questa sua stratificazione Freud vedeva la metafora ideale della struttura della psiche. Infatti, attraversando la città non è raro imbattersi in luoghi (architetture o spazi urbani) dove sono co-presenti elementi di epoche diverse; è il caso, per esempio, delle fortificazioni medievali con aggiunte rinascimentali, barocche e contemporanee costruite sulle rovine del teatro di Marcello, e gli esempi potrebbero essere innumerevoli. Mi sembra che un lavoro fotografico su Roma, se vuole essere plausibile, debba dar conto, in un modo o in un altro, di questa caratteristica stratificazione. Ma questa co-presenza, in un solo luogo, di epoche storiche diverse e soprattutto l’emozione che l’accompagna – quella di una sorta di dilatazione del tempo – non sono facili da restituire fotograficamente.
Queste alcune difficoltà in cui mi imbatto ogni volta che dirigo l’obiettivo della mia macchina fotografica sulla città in cui sono nato.
A queste difficoltà si aggiungono quelle poste dalla rappresentazione fotografica di una realtà urbana, qualunque essa sia.
Quale è il punto di vista migliore per rendere conto di una città? La prospettiva a volo di uccello – quella scelta da Vincenzo Castella nelle sue ricerche fotografiche sulle città, per intenderci – o piuttosto quella frontale, a raso suolo, come nei lavori di Gabriele Basilico su Milano o su Beirut? O ancora quella per frammenti di Saul Leiter, in cui la New York degli anni ’50 si scompone e ricompone come attraverso un caleidoscopio?
Eppoi, dove finisce una città? Quali sono i criteri che permettono di definirne i limiti? Gli spazi peri-urbani ne fanno parte o no? Dove finisce Roma? La Bufalotta, Castel di Decima, Settebagni o Ostia sono ancora Roma o già altro?
Marco
Bonnieux, 22 novembre 2021
Caro Marco,
Non v’è alcun dubbio sul fatto che Roma sia una città costruita sulla contraddizione. Così come penso sia doveroso, per ogni fotografo che voglia “guardarla”, essere cosciente che la contraddizione possa essere elemento di straordinaria portata proprio per chi intende tradire ciò che sta guardando.
E’ vero: Roma è una città ossimoro, è lo spazio ideale degli opposti, è il territorio del contrappunto in cui si intrecciano impulsi completamente diversi e quasi sempre in contrasto tra loro. Ed è proprio per questo motivo che in fotografia e cinema viene raffigurata attraverso stereotipi che tendono a idealizzarla, a normalizzarla, a cristallizzarla in una dimensione storico-folcloristica che ha a che fare più con il mito (ma stiamo parlando di un mito costruito ad arte dalla società consumistica, non con un mito archetipico), che con il mondo contemporaneo.
Quando un autore visivo si pone di fronte a questo ginepraio di ossimori, dunque, cerca fatalmente una condizione rassicurante e semplicistica, si incatena alla presunta realtà togliendo di mezzo l’immaginazione (che è sempre una forma di sano tradimento) .
Nel mio percorso di curatore relativo a progetti dedicati a Roma ho così deciso di affidarmi più che a Freud a James Hillman. Nel suo libro L’anima dei Luoghi, Hillman dice: “ L’intima qualità del luogo è dovuta alla percezione del clima e della geografia, sia all’immaginazione”. Sostiene inoltre Hillman: “ la questione è cosa vuole il luogo, non cosa vogliamo noi…Come lo interpretiamo…Può essere il silenzio la legge del luogo”. Infine: “La città, la più grande tra le opere d’arte umane, appartiene al regno dell’immaginazione”.
Ma le frasi del grande filosofo e psicanalista che più sono rimaste impresse nella mia mente sono le seguenti: “ La città chiede di essere scoperta per nuove percezioni…Potremmo intravederla attraverso una porta, riflessa in una pozzanghera, immagine ritardata di un portone che si chiude”.
Hillman non fa che parlarci di pieghe, di interstizi, di dedali, di punti di vista “altri”, di non azioni, di stupore e di sorpresa. In definitiva, di mistero e di sogno.
Tutto il resto, sostengo io, è rappresentazione, e la rappresentazione è niente.
Maurizio
24 novembre 2021, Roma
Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #1
Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #2
Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #3