Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #5

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Maurizio G. De Bonis
© Marco Barbon. A l'entrée du lieu-dit des Tombeaux Phéniciens. 2015

Caro Maurizio,

Mi sembra che il punto della questione sia proprio, come dice Hillman, « che cosa vuole il luogo, non cosa vogliamo noi ». Ed è forse qui che si può situare il limite dell’autonomia immaginativa che può concedersi un fotografo di fronte alla sfida di render conto dell’anima di una città. In un’intervista recente, Christophe Bourguedieu – fotografo che ha sempre fatto dell’esplorazione dell’anima dei luoghi una sua priorità – parla della « necessaria ricettività nei confronti di ciò che ci sta dinanzi » (traduzione mia). Sono convinto che in questa sovranità del Reale – quella che Barthes chiamava « l’intraitable réalité » – sta il limite e la forza di ogni realizzazione fotografica.

Questa « necessaria ricettività » si incarna in una postura che non è molto alla moda di questi tempi – caratterizzati dalla distrazione generalizzata e dalla passività del consumo delle immagini su schermo – ma che mi sembra una dote essenziale di ogni fotografo, se non di ogni artista: l’attenzione. Soprattutto quando si tratta di cogliere qualcosa di nuovo, o di inatteso, negli interstizi di ciò che ci è familiare. Nota bene: l’attenzione fluttuante (attention flottante) raccomandata dai surrealisti, che a mio parere si confà perfettamente all’esplorazione fotografica, resta pur sempre una forma di attenzione (e qui sarebbe interessante riflettere sulla differenza essenziale tra ricettività e passività).

© Marco Barbon. Rue de Fès. Tanger. 2016

Prima di concludere, vorrei ritornare un’attimo sull’opportunità di smarrirsi per trovare la strada di una nuova visione (opportunità che avevamo evocato in una email qualche giorno fa). In un appassionante articolo dedicato a Roma come contesto narrativo, Emiliano Ilardi osserva che « se a Berlino, come ci racconta Benjamin in Infanzia berlinese (1950) ci vuole una certa pratica per smarrirsi; se a Parigi scrittori e poeti come Baudelaire o Breton dovranno inventarsi vere e proprie tecniche di smarrimento che sfoceranno poi nelle avanguardie; a Roma ci si perde in maniera del tutto naturale ». Forse questo, in fondo, vuole la nostra città. Seguiamo allora la sua china naturale, lasciamoci andare al suo richiamo antico e perdiamoci ex novo nelle pieghe e nei dedali che ci offre. Solo così probabilmente potremo esserle fedeli, restando al contempo fedeli alle nostre chimere.

Marco
Bonnieux, 5 dicembre 2021

 

Frame del film “La notte” di Michelangelo Antonioni (1961)

Caro Marco

Quando si parla di “sovranità del reale” mi domando cosa sia il reale e quali capacità noi abbiamo per poterlo analizzare.

Questi sono punti ancora per me non così chiari, tanto più che il nostro sistema neuro-percettivo è costantemente all’opera per risolvere problemi e mancanze che si presentano proprio ogniqualvolta ci impelaghiamo nella rappresentazione/interpretazione di un reale che la fisica quantistica, ad esempio, ci ha insegnato essere inesistente.

Ma a parte ciò e ritornando alla questione della raffigurabilità della città, e in particolare di Roma, concordo con te sulla questione dell’attenzione. Sì, è fondamentale, perché l’attenzione è direttamente connessa a un altro termine a me molto caro: contemplazione.

Frame del film “Due o tre cose che so di lei” di Jean-Luc Godard,(1967)

L’atto contemplativo è centrale per il processo di fabbricazione artistica, e ancor di più lo è quando il soggetto guardante si pone in relazione al caos labirintico della città. E così, proseguendo lungo questa strada, ho sempre pensato che l’atto contemplativo sia la base dell’estetica, quest’ultima intesa non tanto come bellezza o armonia quanto piuttosto come sentimento che si genera nell’esperienza della percezione.

Proprio quest’ultimo aspetto potrebbe configurarsi come una possibile soluzione per cercare di “sentire” Roma: cioè avvicinarla esteticamente, non narrativamente e neanche sociologicamente.

Dunque, questo procedimento potrebbe essere veramente utile all’artista, al fotografo, per permettergli di cogliere quelli che io definisco, facendo ancora una volta riferimento al pensiero di Hillman, i mondi inferi che si celano nelle pieghe di una metropoli e che noi in genere non vediamo perché non più in grado di contemplare.

Maurizio
Roma, 11 dicembre 2021

Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #1
Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #2
Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #3
Dialoghi tra Maurizio G. De Bonis e Marco Barbon sull’immagine della città #4

Maurizio G. De Bonis

Maurizio G. De Bonis è critico cinematografico e delle arti visive, curatore, saggista e giornalista. È direttore responsabile di Cultframe – Arti Visive, è stato direttore di CineCriticaWeb e responsabile della comunicazione del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Insegna Cinema e immagine documentaria e Arti Visive Comparate presso la Scuola Biennale di Fotografia di Officine Fotografiche Roma. Ha pubblicato libri sulla fotografia contemporanea e sui rapporti tra cinema e fotografia (Postcart), sulla Shoah nelle arti visive (Onyx) e ha co-curato Cinema Israeliano Contemporaneo (Marsilio). Ha fondato il Gruppo di Ricerca Satantango per il quale ha curato il libro "Eufonie", omaggio al regista ungherese Bela Tarr. È Vice Presidente di Punto di Svista - Cultura visuale, progetti, ricerca.

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