Nella spoglia ma struggente ultima inquadratura de Gli orsi non esistono, il personaggio del regista Panahi (che interpreta se stesso) tira il freno a mano della sua auto in fuga, per l’ennesima volta, da un groviglio inestricabile di oppressioni e conflitti apparentemente senza possibile conciliazione.
Sono passati più di dieci anni da This Is Not a Film (2011), la prima opera di Panahi distribuita in occidente senza il consenso del governo iraniano che lo aveva arrestato per poi comminargli anche il divieto a non dirigere più film. E nuovamente, da qualche mese, Panahi è stato arrestato e condannato per aver sostenuto pubblicamente la causa di un regista di valore come Mohammad Rasoulof, Orso d’Oro 2020, incarcerato all’inizio dell’estate insieme al collega Mostafa Al-Ahmad per avere espresso sui social solidarietà con le vittime di una delle tante violenze poliziesche all’ordine del giorno in quel paese. Da allora, l’unica buona notizia è che l’attività artistica di Panahi non si è mai veramente interrotta, traendo anzi miracolosamente ispirazione dai vincoli imposti, come si vede in titoli quali Closed Curtain (2013), Taxi (2015) e Tre volti (2018). Un decennio, tuttavia, in cui il cinema di Panahi è stato evidentemente meno libero rispetto al precedente – apertosi con il Leone d’oro a Il cerchio (2000) cui seguirono i notevolissimi Oro rosso (2003) o Offside (2006) – ma ha saputo restare vivo e vitale riflettendo su se stesso e sul suo ruolo nella società contemporanea.
Anche Gli orsi non esistono prosegue il medesimo discorso intrecciando diversi piani narrativi e due storie parallele che vedono implicato il regista. Rifugiatosi in un villaggio quasi alla frontiera con la Turchia (il passaggio del confine, pur senza documenti e visto, è alla portata, ma Panahi è davvero disposto a lasciare l’Iran?), egli prova a dirigere un film seguendo le riprese e dando indicazioni da remoto alla troupe che sta lavorando con una vera coppia che da tempo tenta di fuggire all’estero: per lei si è riusciti a trovare un passaporto falso ma la donna non vuol partire senza di lui. Nel villaggio, dove la connessione è molto instabile, Panahi si dedica alla fotografia e forse inquadra in uno scatto un’altra coppia di innamorati, un’unione che non è accettata perché la ragazza ha già un promesso sposo: pure per loro l’unica soluzione sarebbe una fuga e il tagliare i ponti con le famiglie rispettive.
All’espatrio clandestino era dedicato anche Hit the Road (2021), l’esordio della figlia Panah Panahi passato a Cannes lo scorso anno, ed è infine questo il dissidio centrale per intere generazioni di cittadine/i in rotta con la Repubblica Islamica: andare o a restare, pagando un alto prezzo in entrambi i casi? Oltre al contesto ben chiaro cui si riferisce e al congegno meta-cinematografico sempre fecondo, questo nuovo capitolo delle meditazioni dell’autore sull’Iran e sull’arte della rappresentazione sembra essere il più ambivalente e il più disperato della serie firmata dal regista. Nella parte centrale del film non si è infatti certi se il personaggio di Panahi abbia o non abbia immortalato i due amanti ribelli, ma la scena in cui accetta di prestare giuramento in una stanza che quella comunità deputa a tale cerimonia chiedendo il permesso di filmarsi mentre dichiara di non avere la foto incriminata invece che limitarsi a giurare sul Corano è un estremo attestato di fede nel cinema.
Nel finale tragico delle due storie, Panahi si trova però – suo malgrado – incapace di proteggere le due coppie di personaggi. Se l’esito dell’amore non corrisposto tra i due promessi sposi è determinato da una verità dei sentimenti che non si vuole riconoscere pur di rispettare la tradizione di combinare i matrimoni il giorno stesso della nascita, sul set che il regista non può seguire come vorrebbe una menzogna a fin di bene provoca una crisi che fa saltare drammaticamente il gioco tra finzione e realtà.
Gli orsi non esistono è dedicato a Hengameh Panahi che con la sua Celluloid Dreams sostiene da anni il lavoro del regista e molto altro cinema indipendente ed è stato significativamente accompagnato alla 79° Mostra del Cinema di Venezia da alcune altre produzioni iraniane in apparenza meno osteggiate dalla censura governative ma di indubbio interesse: in Concorso si è infatti visto anche Beyond the Wall di Vahid Jalilvand il cui intrigo è scatenato dalla repressione violenta di uno sciopero operaio da parte di polizia e agenti di sicurezza, un episodio narrato attraverso un dispositivo sì deformante ma non al punto da risultare innocuo come denuncia, anzi; il vincitore della sezione Orizzonti World War III di Houman Seyed (primo premio e riconoscimento meritatissimo per il miglior attore a Mohsen Tanabandeh) è invece uno spietato atto d’accusa contro una società che incoraggia ogni sorta di sopraffazione contro le persone più deboli e indifese e anche qui, in modo diverso da Panahi, il cinema (il set di un film sui peggiori dittatori della storia, da Hitler a Hussein) è il microcosmo in cui si scatena una violenta ribellione degli ultimi contro una tradizione millenaria di vessazioni che è alla base di ogni dittatura.
© CultFrame 09/2022 – 10/2022
Film presentato alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ⋅ Premio Speciale della Giuria
TRAMA
Un regista di Teheran isolatosi in un paesino al confine tra Iran e Turchia cerca di dirigere le riprese di un film a distanza, quando la connessione a internet glielo consente. Nel villaggio, si accende però un conflitto attorno a un matrimonio combinato che finisce di coinvolgerlo direttamente impedendogli di continuare il suo lavoro.
CREDITI
Titolo originale: Khers Nist (No Bears) / Regia: Jafar Panahi / Sceneggiatura: Jafar Panahi / Montaggio: Amir Etminan / Fotografia: Amin Jafari / Interpreti: Jafar Panahi, Bakhtiar Panjeei, Mina Kavani, Mina Khosrovani, Naser Hashemi, Reza Heydari, Vahid Mobasheri / Paese, anno: Iran, 2022 / Produzione: JP Production / Distribuzione: Academy Two / Durata: 106 minuti
SUL WEB
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – Il sito
La filmografia di Jafar Panahi