Il cinema di Paul Vecchiali⋅Una macchina organica improntata al principio di piacere

Nel 1981, alla morte di Jean Grémillon, Paul Vecchiali scrive un ricordo dell’amato regista che si può leggere in controluce come un auto-ritratto: “Prima di tutto bisogna vivere. Tracciare la propria rotta – ed è difficile quando la si vorrebbe tutta dritta –, attraversare selve aggrovigliate, farsi strada. Accettare i vincoli, i timori, i fallimenti. Accettare tutto questo. Tuffarsi completamente nella mediocrità, nella codardia, nei truschini, nelle menzogne, negli illusionismi, nelle rinunce, nel cinismo, nell’incomprensione. E ancora, accettare tutto questo. E poi filmare. Associare immagini e suoni, esercitare limpidamente il proprio mestiere, dirigere con calma, esprimere sicurezza. E rigurgitare istanti di vita. Ridigerirli. Servirsi delle emozioni, anche delle peggiori, per aiutare chi recita a trasformarle in spettacolo. Rendere altre persone, che il destino ci ha fatto incontrare, delle estensioni della propria vita. Disseminare… Non risparmiarsi; conservare un po’ di pudore. Così che la passione possa sentirsi senza essere esibita. E poi tornare, esausti, alla quotidianità. Sentirsi piano piano meno padroni di se stessi e del mondo. Assumere la propria lucida sofferenza, attenti alle sofferenze altrui, rituffarsi ancora nella gioia del lavoro… Ricominciare a filmare, a vivere… Quando l’usura scava vuoti nella memoria, rallenta i riflessi, mina la volontà, chiudere gli occhi, stringere i denti, senza abbandonare il cammino, aspettare la morte. Che arriva”*.

Rosa la rose, fille publique, regia di Paul Vecchiali (1985) – © Shellac

A leggere questa specie di breviario ad uso dell’artista, sembra di sentire i versi della canzone che alcuni anni dopo risuoneranno nella scena apicale di Encore-Once more (1987): “Non vivete nella paura/Accettate i vincoli/Respingete le paure/Tollerate le pene/Non vivete nel terrore/Non temete più il gelo/Scommettete sulla felicità/Diffidate degli oracoli/Che l’amore faccia miracoli/Ancora e sempre/Vivete la vita/Vivete l’amore”. Vecchiali celebra così un inesausto desiderio di vivere in piena epidemia di HIV-AIDS, che è stato tra i primi ad affrontare al cinema scegliendo la strada, come scrisse, di una “completa sdrammatizzazione dell’AIDS e in fin dei conti della morte, cosa inaccettabile all’epoca”. Così era stato anche dieci anni prima quando in Change pas de main (1976) si era permesso l’astuzia di utilizzare il porno, e quindi i mezzi produttivi che solo lì era riuscito a trovare, come grimaldello per una detective story al femminile capace però anche di ritrarre in modo smaliziato e libero da preconcetti quell’ambiente di sesso e morte. Perché alla fine sempre di quello si è trattato per tutta una vita, di amore (sesso) e morte, che realizzasse un film (più di cinquanta regie dal 1961 al 2022), un testo critico (moltissimi, ad ampio spettro su tutto il cinema ma in particolare su quello francese degli anni Trenta a cui ha dedicato addirittura una personalissima enciclopedia) o un romanzo (anche questi in numero importante fino alla fine). 

Paul Vecchiali (1930-2023) è stato regista di teatro e di cinema, sceneggiatore, scrittore, produttore indipendente con la sua casa Diagonale, forse l’esperimento artistico e produttivo più interessante in Francia. Prima ancora di Diagonale aveva prodotto Jean Eustache, Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (1975) di Chantal Akerman e l’esordio di Marie-Claude Treilhou, Simone Barbès ou la vertu (1980). Nell’anno della sua scomparsa, il FID di Marsiglia gli ha tributato un omaggio con sette titoli riproposti e un volume di testi intitolato Paul Vecchiali. Once more edito da Editions de l’Oeil che riunisce brevi saggi e ricordi personali di figure affini, tanto appartate quanto preziose, del cinema francese come Marie-Claude Treilhou e Pierre Creton; alcuni scritti dello stesso Vecchiali su Keaton, Ford, Curtiz, Fuller e Blake Edwards; una lettera a Valerio Zurlini; un lungo dialogo tra i critici Damien Bertrand, Pascale Bodet e Gaël Teicher con tre attori che sono stati anche suoi co-sceneggiatori (la mitica Françoise Lebrun, Jean-Christophe Bouvet e Pascal Cervo); una filmografia commentata; alcune pagine di fotogrammi a colori da Trous de mémoire (1985), Encore-Once more e dall’ultimo Bonjour la langue (2022) presentato in anteprima mondiale al 76° festival di Locarno.

Vecchiali era nato ad Ajaccio ma cresciuto a Tolone, figlio di un militare e di un’insegnante. Alla madre dedicherà uno dei suoi film più autobiografici, En haut des marches (1983) affidandone il ruolo a Danielle Darrieux. Nel romanzo autobiografico Les frontières de l’aube racconta la sua precoce passione per il cinema, per le attrici, per le dive, Darrieux in testa, che scopre in una fotografia scattata sul set di Mayerling (1936) di Anatole Litvak. La decisione è presa: vuole incontrarla, ma non nella realtà, al cinema; la vuole vedere sullo schermo e lavorare con lei da regista. Ha sei anni e ce ne metterà quasi altri cinquanta per realizzare il suo sogno. En haut des marches racconta la storia di una vendetta, forse vera, forse solo immaginata. Una donna torna a Tolone vent’anni dopo aver lasciato la città. Siamo nel 1963, c’è ancora la guerra di Algeria, e soprattutto nel sud c’è un clima di tensione politica, imperversano gli attentati dell’OAS, l’organizzazione paramilitare clandestina che milita per un’Algeria francese. La guerra è finita ma restano dei conti in sospeso. La protagonista è fuggita dopo che le cognate l’hanno denunciata per collaborazionismo con i nazisti, forse al fine di impossessarsi della sua villa in collina, e dopo che il marito è stato assassinato. È un passato pesante e truce e lei certo non è un’eroina. O forse sì, capace di un eroismo che non sta nelle idee ma nella capacità di fare delle scelte e di assumersene la responsabilità fino in fondo. Tra dramma ed esame di coscienza, il film mette in scena una serie di incontri e rese dei conti tra passato e presente. Il dialogo tra la donna e la sua giovane avvocata, per esempio, racchiude lo scontro tra due generazioni, tra due idee di Francia, tra due fronti opposti della morale, tra la ragion pratica e la ragion pura. Lo scontro delle idee, la deliberazione, la dialettica interna hanno attraversato come una costante praticamente tutta la produzione di Vecchiali quasi che il cinema stesso nel suo essere un’arte di luci e ombre sia una forma della dialettica. E infatti, dopo aver liquidato la Diagonale si autoprodurrà con una nuova casa, la Dialectik: “senza dialettica si scade nella caricatura. Nella didattica e nella caricatura […] ed è tutto quel che ho voluto sempre evitare”. 

Femmes Femmes, regia di Paul Vecchiali (1974)

La machine (1977) precorre i tempi nell’affrontare il problema della pena di morte, quattro anni prima della legge che ne decreterà l’abolizione in Francia, attraverso l’assassinio di una bambina; Corps à coeur (1979) affronta attraverso equilibri e disarmonie anche musicali le difficoltà di una donna innamorata di un uomo più giovane; C’est la vie (1980) interroga il dissidio tra lavoro e famiglia, fedeltà e tradimento, devozione ed egoismo di una donna di mezza età. Ma come non leggere già Femmes femmes (1974) come una radicale mise en abyme del gioco di bianco e nero della pellicola stessa (si veda il saggio di Marianne Dautrey nel libro) attraverso il contrasto tra la due protagoniste, la bionda e la bruna che si odiano e si amano. Un film attraversato da quella “disperata vitalità” che non sfuggì al poeta di Casarsa, sedotto dal film al punto da scritturare per Salò entrambe le protagoniste, Hélène Surgère e Sonia Saviange, chiamandole anche a riproporne una sequenza. Tanto è nero il baratro verso cui punta Femmes femmes, quanto è esuberante la musica con cui si apre, a firma Roland Vincent. Ha scritto Philippe Roger: “la musica di Roland Vincent si armonizza perfettamente con il clima dei film di Vecchiali; è un lirismo stilizzato, una melodia che si offre e si fa desiderare, che offre il suo corpo ma conserva la sua anima”**. La prostituzione non è una metafora casuale se pensiamo a un altro dei capolavori di Vecchiali, il melodramma Rosa la rose, fille publique (1985) con una sfavillante Marianne Basler nei panni di una bella di giorno satura di rosso sangue e di blu cianotico.

  Anche in Once more, la musica così come il suono ludico delle parole distillano una contrapposizione continua tra corpo e cuore, sacro e profano, smarrimento e catarsi. Il film racconta dieci anni di vita del protagonista attraverso dieci piani sequenza, dal momento in cui lascia la moglie, alla scoperta dell’amore per gli uomini fino all’AIDS. È un tuffo negli anni Ottanta, effervescenti e malati. Per Jean-Claude Guiguet**: “Benché si tratti di un’analisi clinica, visione allo scanner degli anni Ottanta, Encore riesce abilmente a non opprimerci con lo spettacolo dell’orrore che ci circonda. Vecchiali, come i suoi personaggi, è un moralista intransigente. Nel film, la vera morale, quella che si prende gioco della morale, è la seguente: la paura della morte non è nient’altro che la paura della vita. Da questo punto di vista, l’AIDS non è il tema del film, ma un elemento drammatico atrocemente efficace come lo era il veleno in Romeo e Giulietta per parlare del mistero della vita, dell’essere umano e del mondo”.

A guardarla nel suo insieme l’opera di Vecchiali è dunque una macchina articolata e organica improntata in primo luogo al principio di piacere. Sempre nel saggio su Grémillon, il regista deplorava l’incapacità di una certa critica di riconoscere la grandezza di un film a dispetto della sua disomogeneità o di qualche ingenuità: “a preoccuparsi troppo di non peccare d’ingenuità si rischia di ammazzare il piacere. A troppo pretendere la perfezione, si inaridisce il giudizio”. Sfaccettata eppure densa di rimandi interni, di eterni ritorni al mito, al cinema, alla letteratura, al teatro e ad ossessioni personali con fantasmi che la abitano tra scena e retroscena, tra vita e cinema, l’opera di Vecchiali merita di essere studiata in tutta la sua complessità che richiede perciò di prendere in esame non solo i film ma anche saggi, romanzi, pièce teatrali. Com’è stato ricordato durante l’incontro organizzato dal FID in suo ricordo, l’autore credeva nelle contaminazioni, nella mescolanza tra le forme espressive così come tra le classi sociali e infatti non esitava a coinvolgere nei suoi film, soprattutto ultimamente con una macchina produttiva estremamente assottigliata, persone incontrate nel paese del Var dove viveva e dove è morto il 18 gennaio 2023. Tenere conto di tale complessità sarebbe il modo per rendergli merito dell’opera importante che ci ha lasciato.

© CultFrame 07/2023

[ n.d.r. – Dove non altrimenti segnalato, le citazioni vengono dal volume Paul Vecchiali Once More ]

*Testo apparso nel dossier Grémillon pubblicato nella rivista Cinéma 81 (n°276), dicembre 1981, mia traduzione.

**Dal volume Paul Vecchiali. Turin, décembre 1993 realizzato in occasione della retrospettiva organizzata dal Museo del cinema di Torino e dal Centre culturel français.

IL VOLUME

Titolo: Paul Vecchiali Once More ; Autore: Damien Bertrand, Pascale Bodet, Jean-Christophe Bouvet, Pascal Cervo, Pierre Creton,Marianne Dautrey, Hervé Joubert-Laurencin, Françoise Lebrun, Emmanuel Levaufre,Camille Nevers, Gaël Teicher, Marie-Claude Treilhou ; Editore: Les éditions de l’œil & le FIDMarseille ; Anno: 2023

Silvia Nugara

Silvia Nugara ha un dottorato di Linguistica Francese e i suoi interessi ruotano attorno alle relazioni tra il linguaggio e la costruzione della realtà sociale, con particolare riferimento agli immaginari e ai discorsi relativi alle soggettività di genere. Attualmente è redattrice di Punto di Svista e Cultframe - Arti visive.

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