Presentando per la prima volta il suo film al Locarno Film Festival 2023, la regista Laura Luchetti ha raccontato d’essere stata messa in guardia da più d’un collega sulla difficoltà di trasporre al cinema un autore come Cesare Pavese le cui opere narrative “non hanno struttura”. Tale convincimento, che testimonia un certo disagio verso testi più astratti e rarefatti che non ricchi di colpi di scena, non sembra tener conto di come invece le pagine di Pavese si sostengono proprio grazie a una struttura peculiare ottenuta per mezzo di una trama diffusa di elementi che per semplificare potremmo definire “parole-immagini” e “parole-tema”: le prime sono soprattutto luoghi, altrettanti segni che rinviano a referenti spaziali concreti, riconoscibili a chi legge; le seconde l’aiutano a orientarsi nel testo riuscendo anche a trasmetterne i significati secondi.
Si tratta in entrambi i casi di ricorrenze lessicali che contraddistinguono ritmicamente la prosa pavesiana e che hanno per l’appunto una funzione strutturante tutt’altro che irriproducibile con il linguaggio cinematografico. Nel caso de La bella estate, romanzo breve che Pavese considerò dapprima “fallito nel suo insieme” per poi pubblicarlo in un trittico omonimo di cui è l’unico non dichiaratamente ambientato a Torino, la città che fa da sfondo alle vicende di Ginia è facilmente identificabile nella capitale piemontese degli anni Trenta ma è soprattutto la somma di una serie di elementi urbani (portici, caffè, tram, etc.) e liminari (il fiume e le sue sponde, i prati, etc.) che nel loro complesso costruiscono lo spazio di una tensione analoga a quella che vive la protagonista Ginia: proveniente dalla campagna, la ragazza fa la conoscenza della disinvolta modella Amelia che “si fa dipingere” dagli artisti locali lungo il fiume dove la gioventù di allora trascorreva le giornate festive; nelle sue giornate si disegna infatti un tracciato fatto di continui andirivieni, dal centro storico alle barriere, dalla città agli spazi altri del fiume e della collina, poli che rinviano alla struttura reale del corpo urbano di Torino, dove Pavese ha ambientato la maggior parte dei suoi testi, ma anche all’opposizione simbolica tra la modernità e l’ancestrale.
Nel film di Laura Luchetti, che si dice “liberamente tratto dall’omonimo romanzo”, la raffigurazione pavesiana della città è riprodotta fedelmente e in modo attenta e curato. Per quanto possa risultare oramai usurata da una serie di produzioni che continuano a ritrarla attraverso i medesimi elementi su citati, la Torino di oggi è ancora una scenografia ideale per riportarci a quella degli anni Trenta facendo da sfondo agli itinerari casa-lavoro di Ginia e alle effrazioni verso lo studio del pittore Guido che Amelia le presenta. Semmai, la ragazza appare nel film più intraprendente che nel romanzo, più adulta e più determinata a farsi notare nell’atelier di moda in cui è impiegata; una scelta funzionale a far franare la sua piccola ascesa sociale in seguito all’infatuazione per Amelia e i suoi amici perdigiorno.
Quanto alle parole-tema, accanto a un ampio spettro di derivati di “nudo/a”, “guardare”, “dipingere”, la più forte nel libro è senz’altro quella che Pavese aveva scelto inizialmente come titolo ovvero “la tenda”, la separazione “di panno sfilacciato e pesante, che copriva tutta la parete” tra lo studio del pittore Guido e “il letto sfatto” con l’odore di Amelia, “sporco come una tana” che eccita e respinge Ginia al contempo. Nel film, la tenda e il letto ci sono, ma senza troppe sottolineature e con qualche variante: non potendo materializzare la scoperta dell’odore dell’amica, Ginia trova tra le lenzuola un suo fermacapelli; dopo una notte d’amore, le appare su un muro uno scarafaggio che però non turba la ragazza.
Ritrosa, ma infine decisa a essere ritratta “per vedere come mi vedono gli occhi degli altri”, Ginia è una giovane alla scoperta dei propri sentimenti che non possono che passare dal proprio corpo. E il cinema è il mezzo ideale per mostrarci il gioco di sguardi e di corpi tra i vari personaggi che già Pavese aveva saputo escogitare, con qualche richiamo all’odierna ossessione per l’apparire e l’essere guardati, magari sui social. In tal senso, se già nel romanzo Ginia si scopriva importante dicendosi che, “anche da sola, bastava pensare ai suoi occhi, come l’avevano guardata, per non sentirsi più sola”, Laura Luchetti ha giocato il suo maggiore azzardo affidando il ruolo di Amelia a Deva Cassel, classe 2004, figlia di Monica Bellucci e Vincent Cassel, attrice tanto acerba quanto abituata a sfilare e farsi fotografare sin dalla più tenera età. Incarnare i personaggi pavesiani ha costituito una sfida non di poco conto per l’intero cast, giovane ma già svezzato, composto da Yile Yara Vianello, attrice bambina in Corpo celeste (2011) di Alice Rohrwacher e poi in Semina il vento (2021) di Danilo Capito, nella parte di Ginia; da Nicolas Maupas, già nelle serie Nudes, diretta dalla stessa regista, e Mare fuori, e da Alessandro Piavani, tra i protagonisti di Saremo giovani e bellissimi (2017) di Letizia Lamartire e di varie altre produzioni internazionali. Nel complesso, bisogna ammettere che qualche incertezza recitativa fa il gioco del film e può dirsi coerente alle timidezze e reticenze tipiche dell’umanità descritta da Pavese.
Mentre in radio risuona un discorso del 1938 in cui Mussolini esalta gli “uomini della zolla e della grande estate”, e la protagonista chiude una finestra per non sentirlo, o quando Ginia sogna Amelia distesa nel fiume in una riproduzione di Ophelia di John Everett Millais, si riconosce un apporto originale all’adattamento del libro. Anche i decori e lo studio di pittura di Guido, dove si scorgono opere perfettamente nello stile dei “6 di Torino”, contribuiscono alla cura complessiva di una messa in scena non scontata nel cinema italiano contemporaneo. Tutt’altro lavoro aveva fatto Antonioni in Le amiche (1955), tratto dal romanzo conclusivo della trilogia della ‘bella estate’, Tra donne sole, con il suo bianco e nero e un’atmosfera ben più disillusa oltre che invernale. Laura Luchetti conferma invece al centro del racconto l’esplorazione di desideri e sensualità inespresse cercando di renderla il più possibile universale.
p.s.
Da segnalare anche il progetto recente Le belle estati in cui il regista Mauro Santini, ha lavorato sui romanzi di Cesare Pavese La bella estate e Il diavolo sulle colline producendo un mediometraggio con alcune classi di un liceo pesarese, ancora più giovani dei giovani attori del film.
© CultFrame 08/2023
TRAMA
Cresciuta in campagna, Ginia vive da qualche tempo in città col fratello Severino e lavora come sarta in un atelier di moda. Un’estate la ragazza incontra la modella Amelia, più grande e spigliata di lei, che le presenta alcuni suoi amici pittori introducendola alla loro vita bohemienne.
CREDITI
Titolo: La bella estate / Regia: Laura Luchetti / Sceneggiatura: Laura Luchetti / Fotografia: Diego Romero Suarez Llanos / Montaggio: Simona Poggi / Costumi: Maria Cristina La Parola / Scenografia: Giancarlo Muselli / Musica: Francesco Cerasi / Interpreti: Yile Yara Vianello, Deva Cassel, Nicolas Maupas, Alessandro Piavani, Adrien Dewitte, Cosima Centurioni, Gabriele Graham Gasco, Anna Bellato, Andrea Bosca / Produzione: Kino Produzioni, RAI Cinema, 9.99 Films / Distribuzione: Lucky Red / Italia, 2023 / Durata: 111 minuti