I cinquant’anni del colpo di stato in Cile (11 settembre 1973) sono stati, nell’autunno 2023, l’occasione di rivedere nelle sale cinematografiche alcune opere di Patricio Guzmán, figura di primo piano del cinema cileno in esilio, grazie a un progetto distributivo di Zalab e I Wonder che hanno fatto uscire cinque tra i suoi titoli più recenti: Salvador Allende (2004); Nostalgia della luce (2010); La memoria dell’acqua (2015); La cordigliera dei sogni (2019); Cile. Il mio paese immaginario (2023).
A cavallo tra storia collettiva e memoria personale, i film di Guzmán rendono palpabile ciò che scrisse Jean-Luc Godard in un suo pezzo su Pierrot Le Fou a proposito del cinema come esperienza fisica caratterizzata da un doppio movimento che ci proietta verso l’esterno e, contemporaneamente, ci porta nel più profondo di noi stessi. Nel corso del tempo, infatti, il regista originario di Santiago del Cile (1941), ma esiliatosi prima in Spagna e poi in Francia durante la dittatura del generale Pinochet, ha saputo dare forma a un linguaggio cinematografico in cui la spinta civile, il rigore della ricerca e della documentazione, la polifonia delle testimonianze incontrano il vissuto singolare del cineasta trovando una forma del tutto originale. Luoghi, immagini, storie, emozioni si intrecciano in connessioni originali dal portato conoscitivo profondo.
Appassionato di fantascienza e astronomia, da ragazzo Patricio Guzmán soffre il clima di un paese in cui non vede all’orizzonte prospettive di crescita culturale e così nel 1966 si trasferisce in Spagna per studiare cinema. Nonostante il franchismo, alla Scuola ufficiale di cinematografia di Madrid, dove viene ammesso, ha la possibilità di vedere moltissimi film e di maturare. Realizza alcuni corti, scrive e ha nel cassetto vari progetti a soggetto ma il caso e la Storia lo destineranno al documentario. Nel 1969 muore la madre e lui torna in Cile trovando un clima mutato sia culturalmente sia politicamente, un’effervescenza che lo convince a rimpatriare con moglie e figlia. Sono anni in cui il Cile attrae interesse dall’estero: arrivano Roberto Rossellini, Louis Malle, Costa Gavras per vedere con i propri occhi le trasformazioni che in una manciata di anni investono il paese. Guzmán decide così di dare il proprio contributo alla politica culturale dell’Unidad Popular che ritiene la settima arte fondamentale per testimoniare e partecipare al progetto politico della coalizione e ai cambiamenti sociali in atto. Lavora nella pubblicità, collabora con le attività didattiche del dipartimento di cinema dell’Università cattolica di Santiago, partecipa agli Ateliers della società di produzione ChileFilms per un cinema dell’Unidad Popular e decide di usare la macchina da presa per osservare quel che accade. Guzmán si fa osservatore partecipante, e il cinema diventa anche un modo per riscoprire il Cile dopo anni passati in Europa.
Con una piccola troupe di giovanissimi e l’appoggio produttivo dell’università, nel maggio del 1971 inizia a realizzare quello che sarà El Primer Año, un film in presa diretta sul tentativo rivoluzionario in corso e dal suo interno, in cui il cinema partecipa alla trasformazione politica del paese. Nasce un’opera che avrà un’ampia circolazione internazionale grazie innanzitutto all’impegno di Chris Marker e al collettivo SLON (Société pour le lancement des oeuvres nouvelles, ma anche in russo “elefante”). A quest’opera seguirà l’anno seguente La Respuesta de Octubre che documenta la crisi sociale di un paese sull’orlo di una guerra civile, le cui trasformazioni sono così rapide e caotiche che, come l’autore scriverà a Marker in una lettera del 1972: “qualsiasi sceneggiatura, qualsiasi idea, qualsiasi tema, per quanto attuale, viene completamente superato dalla realtà”. Le proiezioni di questi film li trasformano in oggetto dialettico che alimentano il dibattito e il confronto in un paese inquieto. A fine febbraio 1973, grazie al sostegno, ancora una volta, di Marker, inizia la lavorazione di quello che più tardi diventerà La Batalla de Chile (una trilogia composta da: La insurrection de la burguesia, El golpe de estado, El poder popular), esempio di un cinéma direct che filma la Storia nel suo farsi. In quegli anni, della troupe di collaboratori fa parte l’operatore Jorge Müller Silva che nel novembre 1974 sarà sequestrato dalla polizia militare di regime e fatto sparire. Le condizioni di produzione del film sono difficili, la tensione politica cresce e la troupe deve nascondere il girato in un posto sicuro e segreto: la casa dello zio di Guzmán, Ignacio. La vicenda è rievocata dallo stesso zio in Chile, la memoria obstinada (1997).
Pochi giorni dopo il colpo di stato, Guzmán è arrestato e portato allo Stadio di Santiago dove viene tenuto due intere settimane prima di essere liberato. Nel frattempo, le bobine del film vengono portate in salvo con la complicità dell’ambasciata svedese che prima le trasferisce a Valparaíso e poi da lì, come valigia diplomatica, le mette su una nave diretta in Svezia. Una volta libero, Guzmán raggiunge le bobine in Europa e sceglie l’esilio in Francia dove ancora una volta Chris Marker avrà un ruolo essenziale nel permettergli di montare la grande mole di materiale filmato a Cuba dando forma a La batalla de Chile. Lavorare al film permette al regista di prendere coscienza dell’orrore vissuto, di diventare spettatore della propria stessa storia che ancora brucia e violenta il suo paese. A distanza di tempo, le immagini di quell’opera monumentale sono diventate un repertorio di riferimento, alcune sequenze saranno anche utilizzate in ambito giudiziario nel corso dei processi contro i crimini della dittatura, e ancora oggi riemergono in altre pellicole come dimostra Santiago, Italia (2018) di Nanni Moretti dove le immagini del palazzo della Moneta preso d’assalto sono proprio quelle realizzate dal collega. Il film dà al suo autore ampio riconoscimento internazionale ma non sarà mostrato in patria prima della metà degli anni ’90.
Gli anni ’80 vedono il regista di ritorno a Madrid per dedicarsi alla televisione ma anche a una scrittura documentaria sempre più complessa, che spazia tra temi diversi legati comunque al mondo d’origine: i diversi atteggiamenti della chiesa latinoamericana di fronte alla dittatura in En nombre de dios (1987), la religiosità in Sud America, dalle radici spirituali delle popolazioni precolombiane alla teologia della liberazione in La cruz del sur (1989-1992), il paesaggio tra mito e storia ne La isla Robinson (1999). Nel 1997, Chile, la memoria obstinada segna il ritorno del regista in un paese e ad una città natia di cui non riconosce più la fisionomia, di cui non ritrova più luoghi e persone scomparse. Guzmán opera per colmare i vuoti, per contrastare la cancellazione, la sparizione, l’oblio orchestrato dal potere mediante incontri e dialoghi che, con una emozionate messa in abisso, avvengono grazie alla visione e al commento delle immagini da lui filmate a ridosso e durante il colpo di stato. Il ritorno è confronto e scontro con lo sradicamento, con i limiti e la necessità di costruire memoria storica per un paese in cui le giovani generazioni ancora ignorano troppo degli anni della repressione. L’archivio è riattraversato, riutilizzato, riadattato ad esigenze pedagogiche. Il racconto si spinge alla ricerca di una verità che però non è mai assoluta ma sempre situata, personale. Guzmán raffina sempre di più lo sguardo sul proprio stesso passato, trovando il modo per fargli posto con pudore e intelligenza come dimostra la colonna sonora: un’incespicante esecuzione della Sonata al chiaro di luna di Beethoven da parte dello zio Ignacio.
Nel settembre del 1998, Pinochet viene arrestato a Londra e alcuni anni dopo il regista dà forma a El caso Pinochet (2001) seguito da Salvador Allende (2004): la dittatura è una ferita ancora aperta, una storia ancora da scrivere e da elaborare, l’ossessione di una intera esistenza. Il cinema diventa strumento di conoscenza al cospetto dei misteri della storia, della propria storia. E così, tra la fisica degli eventi e la metafisica degli elementi, il regista inizia ad elaborare un metodo di indagine e narrazione che metterà a frutto in quella che diventerà la trilogia composta da Nostalgia della luce (2010); La memoria dell’acqua (2015); La cordigliera dei sogni (2019). In questi tre film, il paesaggio è testimone degli avvenimenti, e la narrazione gli dà modo di parlare. L’esplorazione della materia di cui è fatto il Cile – stelle, acque e montagne – incontra lo scandaglio nella materia di cui è fatto il ricordo, di cui è fatta la memoria storica e di cui sono fatti i sogni repressi nel sangue.
La trilogia inizia e finisce con l’infanzia: Nostalgia della luce prende piede dai ricordi e dalla passione nutrita sin da bambino per il mistero dell’universo e dei corpi celesti, mentre La cordigliera dei sogni si conclude con l’auspicio di una gioia e di un’innocenza da ritrovare per il paese tormentato. Tormentato da un’ingiustizia e da una violenza che non si limitano al periodo della lunga dittatura ma che risalgono a molto indietro nel tempo, come straordinariamente ricostruito ne La memoria dell’acqua in cui, sulla scorta di un bottone di madreperla, riemergono dagli abissi del tempo i nessi tra la violenza del dominio coloniale e quella della dittatura pinochetista. Ma la violenza e il dominio hanno continuato ad agire anche dopo Pinochet e, racconta sul finale La cordigliera dei sogni, agisce anche nel Cile neoliberale, svenduto e cementificato di oggi. Eppure, nonostante sia stato tentato di tutto per reprimere e uccidere, nelle lotte sociali di oggi che Guzmán filma e omaggia in Cile. Il mio paese immaginario (2023) sembrano rivivere il sogno, l’utopia, il desiderio di costruire un futuro di giustizia e solidarietà che avevano reso dolce e avventurosa la sua prima giovinezza.
RIFERIMENTI
Carlos Reyes, Rodrigo Elgueta, Gli anni di Allende, Edicola (2016)
Julien Joly, Patricio Guzmán, une histoire chilienne. Le cinéma au cœur du monde, L’Harmattan (2021)
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