Un appartamento vuoto e smorto, una stanza desolata, mobili dignitosi ma ormai invecchiati, luce fioca. Una radio d’altri tempi spande nell’aria solo notizie della guerra in Ucraina. Non c’è alcuna vitalità in questo ambiente, non c’è alcun speranza.
Un container che in verità è uno squallido alloggio. Quattro misere brande, altrettanti armadietti metallici, un tavolo. Spazio di esistenze anonime e, di fatto, inutili.
In queste due realtà vivono, o meglio sopravvivono, i personaggi centrali di Foglie al vento, film del cineasta finlandese Aki Kaurismäki.
Si tratta di una cassiera di supermercato solitaria e disillusa e di un operaio depresso e alcolizzato. La prima alterna terribili serate in totale solitudine a sterili sortite notturne in un bar karaoke nel quale si reca insieme alla sua unica amica. Il secondo è un soggetto, divorato da un’angoscia tutta introiettata, che cerca di allontanare i propri fantasmi bevendo smodatamente e fumando compulsivamente.
Kaurismäki si accosta umanamente ai due personaggi con la consueta apparente freddezza espressiva e narrativa. Li colloca spazialmente in una dimensione esistenziale di totale sospensione umana e morale, dimensione interrotta solo dal loro fortuito incontro e dalla passione comune per il cinema. Non sembra esserci alcuna speranza per i due, il destino li avvicina e li separa con mostruoso distacco, un susseguirsi di eventi insulsi e imprevedibili sembra creare ferite insanabili che vengono curate solo dall’assenza di sguardi, da silenzi, da una vicinanza fisica mai sensuale. Tutto è interiore, tutto non è neanche sussurrato, forse solo immaginato.
Kaurismäki, come al solito, si esprime grazie a una poetica certamente raggelante, densa di disperazione, caratterizzata da tormenti individuali irrisolvibili. Nulla è urlato in Foglie al vento (ma ciò vale per tutto il cinema di Aki Kaurismaki), nulla è rappresentato in modo convenzionale, mieloso, pseudo-romantico. Ciò nonostante i sentimenti che i personaggi hanno dentro il loro animo sono tangibili, possiedono una potenza che è tutta rivolta all’interno.
Gli esseri umani che popolano questo film sembrano immobili, praticamente devitalizzati. Ciò che vedono scorrere davanti ai loro occhi è solo una possibile vita che si vaporizza in continuazione. Non un punto fermo, non un obiettivo, se non quello di lavorare per sopravvivere. Ma a che prezzo? Isolamento sociale, impossibilità di comunicare i propri sentimenti, sensazione di evaporazione della coscienza, fuga dall’idea stessa di comunità. Le giornate dei due protagonisti sono spoglie, distaccate, faticose e dolorose. E non sembra palesarsi nessuna soluzione all’orizzonte.
Questa visione esistenziale, dai tratti finanche politici, che sfiora appena il nichilismo, che delinea pericolosamente la strada dell’autodistruzione, che mette a fuoco la vacuità del mondo, è raffigurata da Kaurismaki attraverso il consueto rigore espressivo, rigore in grado di far emergere un ceto proletario che esiste ancora (nonostante si dica che non sia così) e soffre moltissimo.
Ogni inquadratura è studiata nei minimi dettagli, sia per quel che riguarda la composizione dell’immagine sia per quel che concerne la luce e gli aspetti cromatici. I chiaroscuri metaforici si palesano evidenti, la compostezza delle scelte spaziali è terribilmente nitida, gli equilibri sottili e drammatici di ogni sequenza sono gli elementi centrali di un’estetica di lacerante umanità. Sì, perché Kaurismäki è profondamente vicino ai sui personaggi, li ama distaccatamente perché rappresentano la condizione esistenziale di oggi; li accompagna con elegante partecipazione fino alla conclusione chapliniana della storia.
Il catalogo di ritratti di donne, uomini, ragazze e ragazzi che ci mostra Kaurismaki ha una valenza pittorica evidente, così come nelle inquadrature del film si percepiscono chiaramente le istanze visuali della fotografia contemporanea degli ultimi decenni.
Gli attori si esprimono attraverso una tecnica recitativa di esplicita raffinatezza: tutto è sempre solo accennato, espresso attraverso un velo di filosofica rassegnazione. I volti sono marmorizzati in sguardi spesso senza direzione, sono maschere che però non nascondono nulla semmai alludono a ciò che non è visibile ma intimamente riconoscibile. I visi umani inquadrati da Kaurismäki non mettono in scena alcunché, anzi, al contrario, tolgono di scena qualcosa e finiscono per generare risonanze di immagini nella psiche dello fruitore.
Tali caratteristiche formali, la meticolosa asciuttezza della trama, la brevità del racconto (poco più di ottanta minuti), l’ordinata e decorosa direzione degli attori, la raffigurazione di una Helsinki scialba e respingente, gli anacronismi scenografici e oggettuali fanno di Foglie al vento un lungometraggio di rara sobrietà poetica e comunicativa, un’opera che ripulisce la mente dello spettatore dalle inenarrabili e arroganti brutture (commerciali e pseudo-autoriali) che il cinema contemporaneo riserva costantemente loro.
© CultFrame 12/2023
TRAMA
Nella Helsinki contemporanea una solitaria cassiera di supermercato e un operaio alcolizzato si incontrano casualmente. I due provano a stabilire una relazione ma il destino si frappone in continuazione tra loro. Il tutto fino a una conclusione chapliniana.
CREDITI
Titolo: Foglie al vento / Regia: Aki Kaurismäki / Sceneggiatura: Aki Kaurismäki / Produzione: Aki Kaurismäki, Misha Jaari, Mark Lwoff, Reinhard Brundig / Fotografia: Timo Salminen / Montaggio: Samu Heikkilä / Sound designer: Pietu Korhonen Luci Olli Varja / Scenografia: Ville Grönroos / Interpreti: Alma Pöysti, Jussi Vatanen, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu, Paese: Finlandia, Germania / Anno: 2023 / Durata: 81 min