Nel maggio 2017 si celebrano i cinquant’anni dalla memorabile New American Cinema Group Exposition, rassegna dedicata al gruppo di cineasti d’avanguardia riuniti sotto la sigla NACG promosso dall’Unione Culturale di Torino nel maggio del 1967. Il festival riuniva film di Jonas Mekas, Harry Smith, Robert Breer, Peter Kubelka, Bruce Conner, Warren Sonbert, Robert Nelson, Stan VanDerBeek, Shirley Clarke, Thom Andersen e molti altri ancora. Tra il 13 e il 23 maggio 1967, alla presenza di Jonas Mekas, Jerome Hill e Taylor Mead, la Galleria Civica d’Arte Moderna e l’Unione culturale proiettarono 63 film raggruppati in 13 programmi che quest’anno, per tutto il mese di aprile 2017, la Fondazione Prada di Milano, su idea del suo soprintendente scientifico e artistico Germano Celant, ha riproposto in buona parte.
Allora, l’iniziativa nasceva in una stagione tra le più vitali e intense della storia dell’Unione culturale, associazione nata all’indomani della Liberazione da un gruppo di intellettuali antifascisti desiderosi di diffondere in città una cultura allo stesso tempo popolare e di avanguardia, capace di coniugare impegno e ricerca. Erano gli anni della direzione artistica di Edoardo Fadini, critico e organizzatore teatrale, che portò a Torino il Living Theatre e proprio tramite Julian Beck e Judith Malina, entrò in contatto con Jonas Mekas e con la produzione creativa della sua Film-Makers’ Cooperative.
Rivedere oggi quei film significa apprezzare, pur nella grande eterogeneità della proposta, da una parte, quanto lo sperimentalismo anni ’60 fosse in molti casi debitore all’esperienza surrealista ma anche, d’altra parte, quanto dell’underground sia stato integrato da certi linguaggi visivi successivi: basti pensare ai videoclip, nati grazie a certe esperienze di ricerca sul rapporto tra immagini, musica e montaggio. Anche molta videoarte è debitrice dell’esperienza di quello che prima, su suggerimento, pare, di Marcel Duchamp si chiamò “underground” e poi, dato il crescente successo si nobilitò con l’appellativo di “cinema sperimentale”, come ha scherzosamente ricostruito Ira Schneider durante l’incontro tenutosi in Fondazione Prada il 21 aprile prima della proiezione di Lost in Cuddihy del 1966, video-collage di manifestazioni politiche, interni domestici, su un tappeto sonoro di notizie di cronaca nera, meditazioni orientali, musiche folk o jazz. Lo stesso Schneider, dopo alcuni film underground si è dedicato sempre di più alla videoarte e alle arti digitali. La commistione tra le arti è proprio una delle cifre caratteristiche della ricerca espressiva condotta dal NACG, nel cui cinema convergevano la ricerca teatrale (ad aprire la rassegna oggi come allora il violentissimo The Brig in cui Jonas e Adolfas Mekas filmarono una performance del Living Theatre), musicale (le ricerche etnomusicologiche di Harry Smith) e quella nell’ambito delle arti plastiche (innanzitutto la pittura, la pop art, il minimalismo, ma anche tutta la ricerca visiva del Fluxus Group oppure le collaborazioni tra Breer e Tinguely o Claes Oldenburg).
L’iniziativa di Fondazione Prada ha implicato un grande lavoro di digitalizzazione di tutti i film, ma non di quelli di Peter Kubelka, che ha imposto la visione dei suoi materiali in pellicola 35mm. D’altronde, vedere quel cinema in digitale pone oggi rimedio ad alcuni problemi e altri ne solleva. Stando alle registrazioni dei dibattiti del 1967 conservati nell’archivio dell’Unione Culturale, pare per esempio che a causa di un disguido tecnico gli spettatori torinesi non ebbero la fortuna di ascoltare la colonna sonora di Where did our love go di Warren Sonbert, nonostante si trattasse di un film in cui la musica era cruciale. Al di là degli incidenti contingenti, però, la differenza tra pellicola e digitale ricade sull’esperienza della visione modificandola sostanzialmente. Si pensi per esempio a un film come A Movie di Conner che rompe le righe della linearità narrativa giocando a sovvertire testa, coda e corpo del film quasi a dare l’illusione di una confusione di bobine, illusione che chiaramente si perde nella linearità controllata della trasmissione in digitale in cui la massima interferenza che può capitare è una leggera rottura, a volte appena percettibile, nello scorrere fluido dei pixel sullo schermo. La digitalizzazione è comunque un’opera importante di conservazione e di contributo potenziale alla circolazione di questo cinema che altrimenti rischierebbe o avrebbe rischiato la distruzione, come lo stesso Mekas preconizzava qualche anno fa.
Infatti, quando nel 1992, il Museo Nazionale del cinema di Torino organizzò la grande retrospettiva del Cinema d’Avanguardia Americano (1920-1990) “Utopia Americana”, il cineasta e critico lituano scrisse un saggio intitolato Dalla parte del cinema della mia generazione in cui affermava: “il nostro patrimonio cinematografico sta diventando polvere ogni giorno di più, fotogramma a fotogramma. La maggior parte dei film americani d’avanguardia degli anni ’50 e ’60 sta svanendo nel nulla. Tutto quanto rimane sono solo alcune vecchie copie rovinate, alcune delle quali verranno presentate in questa retrospettiva […] in programmazione a Torino. La prossima volta non saranno altro che polvere”. Il digitale sembra poter smentire questa previsione e così, a Milano, si è potuto (ri)vedere un saggio rilevante di quel cinema visionario, capace di penetrare nell’inconscio dei soggetti (da cui l’importanza della forma collage per moltissimi di questi cineasti) ma anche di indagare l’incantevole superficie delle cose, sperimentando con le forme e con il movimento in tutte le sue dimensioni, spaziale e temporale. In quest’ultimo ambito, restano straordinarie le opere di Robert Breer e di Harry Smith, due grandi del cinema sperimentale d’animazione, a loro volta eredi di maestri dell’astrazione come Oskar Fischinger o Hans Richter.
L’evento milanese è stata anche una prima occasione per riparlare della ricezione del New American Cinema in Italia. La rassegna si è aperta sabato 1° aprile con una tavola rotonda sul tema condotta da Germano Celant a cui hanno partecipato Adriano Aprà, Tonino De Bernardi, Pia Epremian e Ugo Nespolo. Della relazione tra cinema underground statunitense e italiano si parlerà anche il 22 maggio in Unione culturale, dove è in programma un appuntamento intitolato We love eyes screen. Ritorno al NAC Torino 1967-2017, curato dall’UC con il ricercatore indipendente Fabio Scandura, che prevede, oltre ad alcune proiezioni e a una mostra di documenti d’archivio, una grande tavola rotonda con tanti di coloro che nel 1967 si trovavano a Torino e parteciparono alla rassegna presentando, in alcuni casi, i propri primi lavori. Infatti, nel 1967, a margine del programma ufficiale di film statunitensi, fu organizzata anche una serie di proiezioni di opere giovani artisti e registi italiani come Tonino De Bernardi, Paolo Menzio, Renato Ferraro, Gianfranco Barberi, Gabriele Oriani, Antonello Branca e a cui assistettero anche Pia Epremian, Ugo Nespolo, Michelangelo Pistoletto allora attivi come film-makers oltre a Gianni Rondolino e Guido Aristarco, poi critici verso la nuova avanguardia americana.
Nel giro di poche settimane passarono per l’Unione culturale prima il Living con l’Antigone e il Frankestein poi la Compagnia De Berardinis-Peragallo con Grifi, i musicisti d’avanguardia Gelmetti, Bussotti, Zaffiri, Berio e René Girard, Starobinski, Goytisolo, Barthes con Sanguineti, mentre dopo l’estate toccò a Fo e Rame ed a Allen Ginsberg che riempì all’inverosimile la libreria Hellas di Angelo Pezzana e le strade circostanti presentato da Fernanda Pivano. Per di più, nello stesso anno in cui l’Unione culturale ospitava la rassegna del NAC, a qualche mese di distanza celebrava anche il cinquantenario della rivoluzione sovietica con un ciclo di film degli anni ’20 per apprezzare come “il cinema sovietico di quel tempo […] approfondì in modo tuttora esemplare i problemi specifici del nuovo linguaggio creato dalla ‘camera’” (cit. dall’introduzione al libretto Rivoluzione d’ottobre stampato in quell’occasione a cura dell’Unione culturale).
Se procedere verso il futuro significa accumulare anni di storia con cui fare i conti, oggi, all’ombra di un futuro sempre più difficile da immaginare perché segnato da un’apocalittica mancanza di fiducia nei tempi che verranno, il passato si trasforma in una dimensione a cui ci si rivolge sempre più spesso per rimpianto o per nostalgia, talvolta, con la speranza che risalire verso le origini possa indicare strade ancora valide da percorrere. C’è anche chi, aspirando al cambiamento oggi, cerca nelle avanguardie di ieri un segno, un’ispirazione, uno scarto con cui misurare l’esistenza di margini d’azione, con cui apprezzare spiragli di luce possibile.
© CultFrame 05/2017
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