Una sorta di incanto pervade le storie di Almodóvar, una suggestione sottesa che attraversa le sue opere (anche le meno riuscite) e che si manifesta, seppur con impeto e forza differenti, in ogni singolo film. Potremmo chiamarlo “amore” e, come tale, in grado di esprimersi in una moltitudine di modi diversi ma capace di farsi, quasi inesorabilmente, “passione” quando il destinatario del sentimento è il cinema. Una relazione viscerale quella del regista castigliano con la settima arte, spesso al centro della sua produzione artistica, e che mai come in questo film emerge in tutta la sua potenza, nel contempo disperata e ardente.
Sarebbe errato, tuttavia, considerare Dolor y Gloria soltanto una mera opera autobiografica perché, come ha affermato Almodóvar, i fatti raccontati lo riguardano al 40 per cento ma è la loro profondità emotiva a rispecchiarlo al 100 per cento; ed è infatti dalla qualità sostanziale del racconto che scaturisce il significato e la forza dirompente di questo film. Gli accadimenti reali, i ricordi o le invenzioni drammaturgiche compongono un quadro esistenziale complesso in cui gli eventi, al pari degli esistenti che li abitano, assurgono a un più alto valore simbolico che racchiude il senso – personale e artistico – di una vita dedicata alla sublime arte dell’immaginazione.
Salvador Mallo è un regista non più giovane minato nel corpo da una serie di patologie invalidanti e nello spirito da un blocco creativo che sembra sopprimere il suo estro ogni giorno di più. Il restauro di un vecchio film, girato trent’anni prima, lo costringe a fare i conti con il proprio passato per ri/affrontare, quasi suo malgrado, il patimento del presente. I ricordi, i rimpianti, gli amori perduti tornano a riaffacciarsi nei suoi pensieri, popolano i suoi sogni, infliggendogli fitte più lancinanti dell’emicrania e dei dolori alla schiena con i quali da troppo tempo convive e che tenta di contrastare con ogni mezzo, anche il più “estremo”. La sofferenza di Mallo è tangibile; fisica, sì, ma soprattutto intima, distribuita in ogni fibra del suo corpo e ancor di più nelle pieghe di una mente che sta sacrificando al tormento ogni slancio di ispirazione.
Almodóvar (si) mette a nudo l’animo di un artista che non è ancora riuscito a liberarsi dai fardelli più pesanti della vita “precedente” all’oggi – il legame con la madre, l’espressione dell’amore e dell’eros, il successo di un film in cui non si è riconosciuto… – e trova in un Antonio Banderas in stato di grazia, il suo perfetto alter-ego, specchio di un’identità che si fa persona e personaggio, e dal quale estrae il massimo fervore interpretativo che illumina, letteralmente, ogni sequenza.
Dolor y Gloria sembra saldarsi, idealmente, a Gli abbracci spezzati (2009) e a La pelle che abito (2011) in cui il regista spagnolo celebrava l’incanto del cinema ma anche la sua capacità di manipolare, amalgamare o sezionare la realtà attraverso il montaggio– unico e personale – dell’autore. Anche qui il reale sfuma nella visione onirica, la memoria pervade il presente e ogni ricordo si fa vivido e brillante nel suo accadere qui e ora, davanti agli occhi di un Salvador bambino stordito dal sole mentre Mina, alla radio, canta Come sinfonia o inebriato dalle immagini di una vecchia pellicola, proiettate su un muro bianco di calce.
Il Mallo adulto si riconcilia con se stesso, accettando finalmente di perdonarsi, non senza aver attraversato il gelido inferno del senso di colpa di un figlio incapace di essere uguale a quello desiderato dalla madre Jacinta. Ed è proprio del materno – elemento ricorrente del suo cinema – che Almodóvar si serve per soffocare e, al tempo stesso, salvare il protagonista.
In un gioco di riconoscimenti e rimandi al suo universo immaginativo e senza rinunciare al tocco sapiente dell’ironia, il regista spagnolo guarda finalmente se stesso attraverso gli occhi di quella donna tenace, amorosa e mai troppo indulgente che lo ha generato, alla quale Penelope Cruz infonde la stessa appassionata fierezza che riverbera nell’espressione dolente di una Jacinta ormai anziana, che ha il volto di Julieta Serrano. È un confronto impietoso ma necessario, la cui “messa in scena” attinge (forse) dalla realtà per essere, ancora una volta, alterata dalla libera interpretazione dell’arte alla quale la vita del regista ineluttabilmente appartiene.
Dolor y Gloria svela, così, la parte più intima della poetica almodovariana e della suggestione incantatoria del suo cinema che, nel pieno della propria maturità, mostra qui la sua potenza rivelatoria e, soprattutto, salvifica.
© CultFrame 05/2019
TRAMA
Salvador Mallo è un regista non più giovane in piena crisi creativa. Afflitto da una serie di problemi di salute che gli rendono impossibile tornare sul set, finisce per chiudersi sempre di più in se stesso. Il restauro di un suo vecchio film lo porta a confrontarsi con il proprio passato e a fare i conti con gli eventi più importanti che hanno segnato la sua vita: il legame con sua madre, le relazioni amorose ma, soprattutto, il grande amore per il cinema. Sarà proprio in questa passione che Salvador riuscirà a trovare la propria salvezza.
CREDITI
Titolo: Dolor y Gloria / Regia: Pedro Almodóvar / Sceneggiatura: Pedro Almodóvar / Montaggio: Teresa Font/ Fotografia: José Luis Alcaine / Scenografia: Antxón Gómez / Costumi: Paola Torres/Interpreti: Antonio Banderas, Penélope Cruz, Asier Etxeandia, Julieta Serrano, Cecilia Roth, Leonardo Sbaraglia, Raúl Arévalo, Eva Martín, Susi Sánchez, Nora Navas / Produzione: El Deseo / Distribuzione: Warner Bros./ Spagna, 2019 / Durata: 113 minuti