Clic. Luce. Un centoventicinquesimo di secondo. Un rassicurante rumore meccanico. Lo spazio di un breve sospiro. Il soffio di un sogno. L’alito smorzato e insulso della vita. Il desiderio di essere e di riconoscersi.
Lo scatto fotografico è un inciampo della morte nel suo cammino, un improvviso svuotamento del tempo, un corto circuito dell’esistenza. Di certo, non ferma la realtà ma un suo assurdo surrogato. Si tratta di una teatralizzazione pietrificata della nostra sofferenza, trasfigurata in una drammatica ostentazione di una felicità impossibile da rintracciare.
Proprio per questo motivo le fotografie familiari e turistiche sono profondamente tragiche e insensate, riproduzione, già putrefatta prima della loro realizzazione, di una parvenza di gioia e di bellezza che l’occhio umano non potrà mai catturare. La stampa fotografica amplifica la falsità dell’attimo, la sublima raccontandoci qualcosa che non esiste, che semplicemente immaginiamo e quindi interpretiamo attraverso il nostro sguardo.
One Hour Photo ci parla di tutto ciò; ci racconta l’ossessione dell’essere umano sempre disperatamente concentrato ad inventare il significato della vita; evidenzia il ruolo della fotografia come oggetto cartaceo destinato a riempire il vuoto dell’animo e a generare doppi bidimensionali, e quindi grotteschi.
Sy Parish, un notevole Robin Williams, privato di questo potente allucinogeno autorizzato dalla società, di questa droga visiva, elabora una sua famiglia fittizia aggrappandosi alla falsità di una coppia sposata, e del relativo insopportabile figlioletto, e scoprendo la putrida palude della quotidianità, del tradimento e del dolore borghesemente nascosto e negato.
Mark Romanek concepisce un impianto visivo che risulta l’esatto opposto delle foto familiari su cui si innesta la farneticazione psicotica del protagonista. Inquadrature simmetriche, composizione geometrica, colori pallidissimi, luce fredda. Tutto è assenza e sottrazione, sottrazione spinta fino al minimalismo più assoluto ed insostenibile. Lo stampatore, dunque, nuota nel mare algido e atroce della verità; non ha ideato un’esistenza da “rivista di moda” ma affronta la propria angoscia rinchiudendosi in un mondo che sembra essere un enorme obitorio, una grande stanza mortuaria all’interno della quale è situata la parete-mosaico, autenticamente demoniaca ed agghiacciante, nella quale fa deflagrare attraverso centinaia di immagini il delirio lucido della società dei consumi.
Alla fine, quando Sy si trova in una sala della polizia, chiede di poter vedere il materiale uscito dal suo ultimo rullino. Ebbene, non ci sono le pose hard a cui aveva costretto le sue vittime, annullate umanamente nella falsità di uno scatto fotografico fasullo, ma una serie di immagini che riprendono oggetti inanimati.
Una piastrella del bagno, una tenda, un rubinetto. Un universo gelido e quasi ospedaliero che sembra possedere più anima dei sorrisi bloccati e degli abbracci. Una patina glaciale contraddistingue queste fotografie ordinate e paradossalmente serene perché liberate dall’orrore della rappresentazione di una felicità sognata e mai veramente raggiunta.
Sy guarda così in faccia la morte e il nulla e nei suoi occhi tristi e smarriti c’è molto più coraggio che in quelli della giovane madre pseudo topmodel dalla pettinatura trendy e dalle pupille plastificate.
© CultFrame 10/2002
CREDITI
Titolo: One Hour Photo / Regia: Mark Romanek / Sceneggiatura: Mark Romanek / Fotografia: Jeff Cronenweth / Interpreti: Robin Williams, Connie Nielsen, Michael Vartan / Paese: USA, 2002 / Distribuzione: Twentieth Century Fox
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