Il cinema di Alain Guiraudie riesce a conciliare esigenza e leggerezza. I suoi film non ci chiedono favori né ce li concedono, non reclamano briciole di compiacenza e non si compiacciono nel farlo ma regalano, a chi le accetta, esperienze tanto destabilizzanti quanto liberatorie che recidono i cordami con cui siamo legati alla zavorra del prescritto, del precostituito, del preconfezionato. Nel mondo di Guiraudie ogni uomo corpulento di mezza età, ogni villico anziano, ogni operaio stropicciato con le mutande bucate ha il diritto di accesso alla dimensione del desiderio, può desiderare ed essere desiderato, stare fermo sui margini o agire alla ricerca di margini di giubilo e di resistenza.
Spesso, il regista dell’Aveyron sceglie ambientazioni rurali, campestri, provinciali e in ogni caso laterali, altre, rispetto alla capitale: il suo quinto lungometraggio Rester vertical comincia tra le montagne del parco nazionale delle Grands Causses, dove gli allevatori fanno i conti con il ritorno del lupo. Il protagonista, Léo, capita lì vagando senza meta in fuga dalla città, capiamo che lavora nel cinema e che non riesce a partorire una sceneggiatura. In compenso, fa un bambino con una pastora incontrata passeggiando (un raro caso di personaggio femminile nel cinema di Guiraudie) ma la donna non ne vuole sapere del neonato, ne ha già altri due con cui fa le valigie e fugge lasciando Léo solo con il suocero. Di norma quando la coppia non funziona è la madre che resta sola col bambino, perché non dovrebbe succedere lo stesso con il padre? Chiede la donna a Léo rendendolo ragazzo-padre, altra figura generalmente patetica e invisibile.
In un film stratificato, in cui ogni elemento è allo stesso tempo se stesso e altro, il bebè è un urlo di vita e di protesta, è ciò che resta a chi nella vita perde tutto quel che ha. Quella di Guiraudie è infatti un’umanità che perde tutto: casa, spiccioli, guadagni, abiti, amori, e spesso è disposta anche a perdere la vita e proprio per questo porta con sé la forza rivoluzionaria della dissipazione, del dissenso, del controsenso rispetto allo spirito dominante di un tempo che ci divide in abbienti e nullatenenti, in vincenti e perdenti, in insider e in outsider. Questi personaggi stanno dritti e fermi contro tutto ciò che cementa i legami sociali, in primo luogo la sublimazione del desiderio pansessuale.
L’universo quasi omosociale (ma qui non esclusivo) di Guiraudie è ben lungi dall’orizzonte etero-patriarcale della società capitalistica in cui, come sottolinea Paul Preciado, “fu necessario chiudere l’ano trasformandolo in vincolo di socialità, così come fu necessario recintare le terre comuni per segnalare la proprietà privata”. Invece di aderire, mostrandocelo come unico possibile, a un mondo in cui l’energia sessuale è convertita in “onorato e sano cameratismo virile, in interscambio linguistico, in comunicazione, in stampa, in pubblicità, in capitale”, il regista costruisce un immaginario in cui i corpi si muovono, godono e pulsano variamente e in un flusso ininterrotto di vita e morte. Le sue mani affondano nella materia magmatica e pulsante dell’esistenza, senza paura come quelle dell’ostetrica che manovra la testa del nascituro appena emersa tra il sangue e le feci.
E intanto i lupi si fanno presso. Una lettura congiunturale, riconducibile a una critica dei rapporti di potere e delle forme di devastazione che subiamo ed esercitiamo in tempi di crisi, di bio, semio e finanz capitalismo è certo possibile – i lupi abbondano a Wall Street – ma in Rester vertical si agitano anche forze costanti più profonde, inquietudini radicate nelle più recondite province dell’uomo, legate all’orrore e alla meraviglia che scatena l’emergenza del “selvaggio” e del “bestiale”. Il lupo è anche lo steppenwolf che tiene in sé una doppia natura di luce e ombra, di libertà e sopraffazione, che vive in branco ma è anche antisociale. Il lupo è ciò che abbiamo bisogno di guardare negli occhi per capire chi siamo, stando in piedi, dritti e verticali nell’idea che resistere al massacro della vitalità, dell’immaginazione, si debba e si possa.
© CultFrame 11/2016
TRAMA
Vagando per la campagna francese, il cineasta Léo incontra Marie. Nove mesi dopo, lei dà alla luce il loro bambino ma presto abbandona entrambi. Per l’uomo, si rivela molto difficile crescere da solo il bambino e portare a termine una sceneggiatura. Intanto i lupi minacciano sempre più la zona.
CREDITI
Titolo originale: Rester vertical / Regia: Alain Guiraudie / Sceneggiatura: Alain Guiraudie / Interpreti: Damien Bonnard, India Hair, Raphaël Thiéry, Christian Bouillette, Basile Meilleurat / Fotografia: Claire Mathon / Montaggio: Jean-Christophe Hym / Scenografia: Roy Genty / Produzione: Sylvie Pialat, Benoît Quainon / Francia, 2016 / Distribuzione internazionale: Wild Bunch / Durata: 100 minuti
SU CULTFRAME
34° Torino Film Festival. Programma. di Claudio Panella e Silvia Nugara
SUL WEB
Filmografia di Alain Guiraudie
Torino Film Festival – Il sito