Viens je t’emmène⋅Un film di Alain Guiraudie⋅ 40° Torino Film Festival⋅Fuori Concorso

SCRITTO DA
Silvia Nugara

Alain Guiraudie è un regista che gioca con gli stereotipi e che di sicuro non desidera incarnarne alcuno. Dunque, chi si aspettava da lui una nuova storia gay a tinte fosche si ritrova invece con questo suo nuovo film, presentato in anteprima alla Berlinale del 2022 e poi fuori concorso al 40° Torino Film Festival a sei anni di distanza dal precedente Rester Vertical , di fronte a una commedia su un uomo perdutamente innamorato di una prostituta di mezz’età. Un film del tutto eterosessuale si potrebbe dire, se non fosse che Guiraudie non può essere ridotto a una simile etichetta né a nessun’altra, tanto è libero, audace e vivace il suo immaginario fatto di scarti – ricorrenti scarti anagrafici tra i personaggi che sono a loro volta scarti della società, soggetti ai margini: donne o uomini troppo avanti con gli anni o troppo grassi, troppo poveri o troppo folli, criminali, senzatetto, campagnoli o disoccupati – un immaginario totalmente sganciato dai codici della seduzione, dalle convenzioni narrative se non per farne materia con cui entrare in rapporto dialettico senza prendersi troppo sul serio. 

O forse un po’ sì. Perché l’autore de Le roi de l’évasion (2009) non scherza mai a vuoto, per noia o per vanità. L’ironia gli consente infatti d’incrinare la monolitica negatività del tempo che viviamo, di sciogliere i nodi che asfissiano il pensiero, di prendere in contropiede il gioco di prestigio di un potere che ci strangola con la lunga mano del nostro stesso immaginario viziato dall’ossequio al suo abietto sistema di valori: il possesso, il consumo, la soverchia, la competizione, la visibilità. Per questo, sia nel cinema sia nei romanzi di Guiraudie sono tanto presenti la vigilanza, la polizia, la forza costituita in divisa, allo stesso tempo presenze massicce del nostro quotidiano e figurazioni simboliche di una dimensione psichica su cui fa leva la forza intimidatoria dell’azione/comunicazione politica che manovra con la nostra stessa complicità i nostri timori, sogni e desideri per farci agire esattamente come previsto. Si pensi al ruolo che nel romanzo Qui comincia la notte (2014) riveste la figura del poliziotto, aguzzino senza freni che, in un tripudio pasoliniano di sangue e merda, in fin dei conti non fa che assecondare il protagonista nel suo più grande desiderio: la morte.

Viens je t’emmène è un film pieno di freddure, di situazioni ridicole, assurde, esilaranti per quanto sia ambientato sullo sfondo di un attacco terroristico di presunta matrice islamica come quelli che in anni recenti hanno sconvolto Parigi e Nizza. Però l’azione si svolge nell’improbabile Clermont-Ferrand, cittadina fuori dai radar della visibilità mediatica, politica e produttiva che non si capisce per quali ragioni dovrebbe essere presa di mira dall’ISIS. Tuttavia, la cittadina appare nel film come allo stesso tempo appartata tra le campagne e quintessenziale di tutto il Paese, collocata com’è al centro esatto dell’esagono, con una cattedrale tutta nera e una statua equestre di Vercingetorige che pare simboleggiare l’eterno ritorno della Francia a una storia guerriera ancora glorificata nell’inno nazionale.

Due piste narrative si intrecciano nel film, che in parte riprende uno dei filoni narrativi che scorrono più recente e notevolissimo romanzo-fiume Rabalaïre (2021) dell’autore, meritevole di una traduzione in italiano. Da una parte c’è Médéric (Jean-Charles Clichy) che si innamora della prostituta Isadora (Noémie Lvovski) e riesce a ottenere un appuntamento con lei proprio la sera in cui la città è sconvolta da un attentato terroristico. L’episodio sembra agire quale fosse una maledizione sul loro rapporto che, come in un film di Buñuel, si interrompe sempre senza compiersi mai. Mentre la polizia si mette alla ricerca di un attentatore fuggito, sotto casa di Médéric si presenta un giovane senzatetto che cerca aiuto e ospitalità. Médéric cede e lascia che il ragazzo passi la notte nell’androne del suo palazzo. L’indomani il ragazzo si ripresenta e i vicini di casa iniziano chi ad allarmarsi chi a compiere gesti di solidarietà litigando tra loro su una situazione che calamita nel piccolo condominio tutte le contraddizioni che agitano il corpo sociale. Le fattezze nordafricane del ragazzo spingono Médéric a ipotizzare che possa trattarsi dell’attentatore fuggito e la paura si allunga come un’ombra sulla sua vita mentre i sogni si trasformano in incubi per poi rivelarsi ridicole proiezioni al momento del risveglio. 

O forse no perché nessuno è davvero quello che sembra in questa commedia nera, rivisitazione del marivaudage ai tempi della post-verità e della paura totale. È come se, in casi di estrema tensione generale causati da un evento traumatico, ogni successivo episodio di conflitto della vita quotidiana risvegliasse il ricordo dell’evento traumatico e dunque sollecitasse nei sopravvissuti una risposta sproporzionata, eccessiva, impigliata in un’elaborazione tutta ancora da compiersi. Quando il trauma è ancora vivo, tutto scatena sospetti, paure, minacce: dopo un attentato ogni conflitto si trasforma in abuso, nessuno è più capace di lucidità e una donna con una sciarpa in capo desta sospetti di radicalizzazione islamica mentre un manipolo di piccoli spacciatori di quartiere assume le sembianze di una rete terroristica internazionale.

Viens je t’emmène è quindi un po’ un apologo contemporaneo sull’islamofobia, il terrorismo, la società del controllo, la rappresentazione mediatica come succedaneo fuorviante dell’esperienza diretta, l’ossessione securitaria che spinge a barattare libertà in cambio di vigilanza; ma è anche uno scandaglio di questioni più profonde e atemporali. Attraverso i suoi personaggi, che sono stilizzazioni, funzioni ideate per sconfessarsi puntualmente (la vittima partecipe della propria oppressione, il razzista razzializzato, il mite che è tale per meschinità e non per bontà, l’orientamento politico o sessuale che cambia a seconda di quel che conviene), Guiraudie racconta così il nostro movimento incessante e allucinato in quel labirinto di passioni, paure e illusioni che chiamiamo realtà.

© CultFrame 12/2022

TRAMA
Durante una corsetta in collina, Médéric incontra Isadora, una prostituta di mezza età, e se ne innamora. I due si danno appuntamento in una camera d’albergo proprio mentre la città è scossa da un attentato terroristico che avrà ripercussioni anche sulle loro vite. Uno degli attentatori, infatti, è a piede libero e somiglia proprio al giovane nordafricano che quella stessa sera si presenta a casa di Médéric in cerca di aiuto… 

CREDITI
Regia: Alain Guiraudie / Sceneggiatura: Alain Guiraudie, Laurent Lunetta / Montaggio: Jean-Christophe Hym / Fotografia: Hélène Louvart / Scenografia: Emmanuelle Duplay /  Costumi: Khadija Zeggaï / Musica: Xavier Boussiron / Interpreti: Jean-Charles Clichet, Noémie Lvovsky, Iliès Kadri, Michel Masiero, Doria Tillier, Renaud Rutten, Philippe Fretun, Farida Rahouadj, Miveck Packa, Yves-Robert Viala, Patrick Ligardes / Paese, anno: Francia, 2021 / Produzione: Charles Gillibert con Arte France Cinéma, Auvergne-Rhône-Alpes Cinéma, Umédia / Distribuzione: Les Films du Losange / Durata: 100 minuti

Silvia Nugara

Silvia Nugara ha un dottorato di Linguistica Francese e i suoi interessi ruotano attorno alle relazioni tra il linguaggio e la costruzione della realtà sociale, con particolare riferimento agli immaginari e ai discorsi relativi alle soggettività di genere. Attualmente è redattrice di Punto di Svista e Cultframe - Arti visive.

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