Si, l’ammetto. Non ho resistito. Era qualche giorno che avevo scaricato sul mio decoder la prima puntata della nuova stagione di Master of photography. Ogni tanto il mio pensiero andava lì. Mentre scorrevo la mia library di Sky, tra un film e l’altro, tra un episodio di Twin Peaks e uno di Fargo, vedevo sempre questa maledetta scritta: Master of Photography. Così, alla fine ho ceduto: l’ho guardata. Nell’istante in cui premevo play sul mio telecomando ho pensato: “avranno sicuramente migliorato il format. Non ci sono dubbi”. Poi: “avranno innovato lo stile e approfondito in maniera più appropriata il tema della fotografia”. E infine: “per fortuna che in questa nuova edizione non c’è la figura di Isabella Rossellini, superflua e ingenua “cerimoniera” della passata esperienza”.
Ebbene, nell’arco di pochi minuti tutte le mie speranze, tutte le mie aspettative, tutte le mie illusioni sono miseramente crollate di fronte alla tragica evidenza di ciò che vedevano i miei occhi sbigottiti e udivano le mie orecchie incredule.
Anche in questo 2017 il programma Master of photography si è manifestato come una sorta di frutto inquietante e mostruoso (siamo nei paraggi del neonato raccapricciante di Eraserhead di David Lynch) nato dall’infausto incontro tra Masterchef e Amici. Solo che a giudicare i malcapitati concorrenti non c’è il finto cattivo Carlo Cracco né la pseudo amorevole Maria De Filippi (forse sarebbe stato addirittura più interessante). A decidere se una fotografia fosse bella o no (questo è il livello dell’epico “scontro”) c’erano tre professionisti: la fotografa Darcy Padilla, la photoeditor (ma perché ci deve essere sempre in mezzo un photoeditor?) Caroline Hunter e l’immarcescibile Oliviero Toscani. Posizionato come una foglia di basilico su una pizza margherita anche il fotoreporter David Alan Harvey.
La situazione si è fatta ancora più preoccupante per me quando da siciliano mi sono accorto che l’argomento di “esercitazione dei concorrenti” sarebbe stata la Sicilia. Ancor di più: Ragusa e la sua provincia. Ho pensato: “per carità… non voglio vedere. Lì ho passato tutta la mia infanzia. Non voglio che la memoria onirica, delirante e meravigliosamente folle della mia terra venga ricondotta a un’idea comicamente banale della fotografia”. E invece ho insistito. Ho visto e avrei fatto meglio a non vedere. Non tanto per le immagini scattate dai concorrenti (certo, alcune decisamente modeste) quanto piuttosto per l’atroce convenzionalità con la quale è stata dipinta la Sicilia (in generale) e la provincia di Ragusa (in particolare) soprattutto grazie ai pensieri e alle parole degli esperti.
Ne ho sentite di tutti i colori. Tra tutti, il fotografo Harvey ne ha infilata una dietro l’altra. Riferendosi a un terribilmente scontato ritratto di un soggetto maschile ha, tra l’altro, detto all’autore dell’immagine:
“probabilmente questa è la tua scena migliore. Quest’uomo è il classico siciliano” (forse esiste un prototipo di siciliano classico? n.d.r.)… “c’è la chiesa sullo sfondo e la luce è fantastica”. Mentre parlava con un’altra partecipante ha affermato: “Se vuoi essere davvero didascalica (didascalica? n.d.r), meglio questa!” Ma tutti i giudici non sono stati esenti da sconvolgenti ovvietà, e ciò ha trasformato la prima puntata della nuova stagione di Master of Photography in un iperbolico festival del luogo comune, dello stereotipo fotografico e para-culturale.
Sorvolo ora sul testo comunicato dalla voce fuori campo in cui si sostenevano dei macroscopici cliché su Ragusa e sulla fotografia concettuale e voglio soffermarmi su una delle immagini giudicate incredibilmente come una delle migliori: un ritratto di un giovane artigiano che dipinge carretti siciliani. Carretti siciliani? “Oddìo no, i carretti siciliani no”, ho pensato dentro di me. Davanti ai carretti siciliani e alla figura dell’artigiano, Darcy Padilla e Caroline Hunter hanno rispettivamente affermato: “È un’immagine senza tempo. Lui ci guarda negli occhi e funziona. Un ottimo risultato… Sono d’accordo con Darcy. Lui ha uno sguardo caldo e molto affascinante”.
Come è possibile perdere tempo con simili ovvietà? Perché ci si abbandona così facilmente al luogo comune? Perché ci si incarta ancora in tali prevedibili dichiarazioni? Le risposte a queste domande l’ha data sinteticamente proprio Oliviero Toscani con un’autentica perla (riferendosi a un’altra immagine): “La bottega del barbiere è un’idea ottima per rendere la Sicilia”.
Vi confesso che mentre scorrevano i titoli di coda del programma la depressione ha iniziato a salire in me lenta e inesorabile come un’invadente e sinuosa marea. Poi, però, mi sono ripreso pensando a due sublimi frasi pronunciate da David Alan Harvey che mi hanno messo decisamente di buon umore. A tal proposito, definirei queste magistrali locuzioni prendendo in prestito la formula con la quale i critici musicali Enrico Stinchelli e Michele Suozzo, autori e conduttori della meravigliosa trasmissione di Radio Tre dedicata alla lirica La Barcaccia, identificano fantasmagoriche stecche e orripilanti esecuzioni della storia della Lirica: Le Perle Nere. Ebbene, eccone due, che rimarranno nei secoli, di Harvey con le quali vi lascio: “…il viaggio (fotografico, n.d.r) deve essere sullo stesso livello del sesso. Tutti lo vogliono fare, no? Dovrebbe essere entusiasmante e anche intenso… Tutta la carriera di un fotografo si riduce ai 30 secondi in cui sceglie l’inquadratura”.
© CultFrame – Punto di Svista 05/2017
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